Tesori di Roma: foto di Roma gratis

Gian Lorenzo Bernini a Roma

Statua di Santa Teresa
Statua di Santa Teresa

Opere di G. Lorenzo Bernini a Roma

Vengono di seguito riportate le opere del Bernini presenti a Roma, comprese quelle attribuitegli o opere dei suoi allievi.

Piazza Navona

Fontana dei Fiumi -
Fontana del Moro

Piazza Barberini

Fontana del Tritone
Fontana delle Api

Galleria Borghese

Piazzale del Museo Borghese

La Capra Amaltea tra Giove fanciullo e un faunetto
Il Busto di Paolo V
Enea e Anchise
Plutone e Proserpina
David
Apollo e Dafne
Il Busto del Cardinale Scipione Borghese
Il dipinto Autoritratto
Il dipinto di Ritratto di fanciullo
La Verità
Bozzetto per un monumento a Luigi XIV

Galleria Doria Pamphilj

Piazza del Collegio Romano

Il Busto di Innocenzo X
Prima versione del Busto di Innocenzo X

Palazzo Barberini

Galleria Nazionale d’Arte Antica
Via Barberini 18

Il Busto di Antonio Barberini
Il Busto di Urbano VIII
Il dipinto di Daid con la Testa di Golia
Il dipinto Ritratto di Urbano VIII
Il Busto di Clemente X

Scala a pozzo quadrato
Salone Centrale
Loggia e portico sottostante

Musei Vaticani

Modelli

Musei Capitolini

Piazza del Campidoglio

Statua di Carlo Barberini
Statua di Urbano VIII
Testa di Medusa

Palazzo di Propaganda Fide

Piazza di Spagna

Facciata su Piazza di Spagna

Ponte Sant'Angelo

I dieci Angeli ai lati del ponte

Piazza del Popolo

Porta del Popolo facciata verso la piazza

Palazzo del Quirinale

Loggia delle Benedizioni
Torrione

Chiesa di San Francesco a Ripa

Piazza San Francesco d'Assisi

Cappella Paluzzi-Albertoni
Statua della Beata Ludovica Albertoni

Chiesa di San Giacomo in Settimiana

Memoria funebre

Chiesa di San Lorenzo in Lucina

Via in Lucina 16

Cappella Fonseca
Il Busto di Gabriele Fonseca

Chiesa di Santa Prassede

Memoria funebre del vescovo Santoni

Chiesa dei Ss. Domenico e Sisto

Via Panisperna

Progetto dell'altare della famiglia Alaleona
Ciborio sopra l'altare maggiore

Teatro Barberini

Via Barberini

Visibili solo alcuni elementi architettonici

Palazzo di Spagna

Anima dannata
Anima beata

Palazzo Venezia

Bozzetti in terracotta

Basilica di San Pietro in Vaticano

Baldacchino
Campanili
Cattedra di San Pietro
Ciborio della cappella del SS. Sacramento
Decorazione marmorea e scultorea della navata centrale
Modello in creta nel Tesoro
Monumento contessa Matilde di Canossa
Monumento funebre di Alessandro VII Chigi
Monumento funebre di Urbano VIII Barberini
Pilastri della cupola di San Longino
Statua di San Longino
Rilievo sopra il portale del Filarete
Scalinata
Statua equestre di Costantino

Colonnato di Piazza San Pietro
Fontana di Piazza San Pietro

Palazzi Vaticani

Scala Regia
Sala Ducale
Visione di Costantino

Pantheon

Piazza della Rotonda

Campanili ora distrutti

Chiesa di San Pietro in Montorio

Cappella Raymondi

Chiesa di Sant'Agostino

Piazza di Sant'Agostino

Altare maggiore

Chiesa di Sant'Andrea al Quirinale

Via del Quirinale

Progetto e costruzione

Chiesa di Sant'Andrea delle Fratte

Via di Sant'Andrea delle Fratte 1

Angelo con il titolo della Croce
Angelo con la corona di spine

Chiesa di Sant'Isidoro

Via Sant'Isidoro

Cappella da Sylva

Chiesa di Santa Bibiana

Via Giolitti 154

Progetto e costruzione
Statua di Santa Bibiana

Chiesa di Santa Francesca Romana

Disegno della Confessione

Chiesa di Santa Maria del Popolo

Piazza del Popolo

Restauro
Abacuc e l'Angelo
Lampada pensile
Daniele e il Leone

Chiesa di Santa Maria della Vittoria

Via XX Settembre

Cappella Cornaro
Statua dell'Estasi di Santa Teresa d'Avila

Chiesa di Santa Maria di Montesanto

Piazza del Popolo

Progetto

Chiesa di Santa Maria in Aracoeli

Disegno dell'iscrizione commemorativa nella controfacciata

Chiesa di Santa Maria in Monserrato

Via Monserrato

Il Busto Monsignor Pedro de Foix Montoya

Chiesa di Santa Maria Maggiore

Progetto dell'Abside
Sepolcro della famiglia Bernini

Chiesa di Santa Maria sopra Minerva

Piazza di S. Maria sopra Minerva

Monumento funebre di suor Maria Raggi
Sepoltura cardinal Pimentelli

Piazza di Santa Maria sopra Minerva

Obelisco della Minerva

 VITA E OPERE DI GIAN LORENZO BERNINI

GIAN LORENZO BERNINI (1598-1680) è stato architetto, scultore, pittore, autore di teatro e scenografo. I contemporanei hanno riconosciuto e celebrato in lui il genio del secolo: non solo l'interprete ma il fattore essenziale di quella "restaurazione cattolica" che, dopo il chiuso rigorismo controriformistico, rivaluta tutta la cultura come storia del riscatto ideale dell'umanità.
Già Annibale Carracci aveva indicato nell'immaginazione la via dell'universale, della salvezza: per il Bernini è l'universale che si realizza, entra nella vita. Ciò che l'immaginazione concepisce deve diventare, sùbito e totalmente, realtà. Questo è il compito della tecnica. Più che nella novità e vastità delle invenzioni formali, la grandezza storica del Bernini è nella sua sconfinata fiducia nella capacità della tecnica, capace di realizzare tutto ciò che si pensa e desidera. Anche la salvezza spirituale e la felicità terrena degli uomini: la Chiesa è l'apparato tecnico della salvezza, lo Stato l'apparato tecnico della felicità. Per insegnare ad immaginare, ad oltrepassare i limiti del finito e del contingente, ma soprattutto per fare dell'immaginazione una realtà visibile, c'è la tecnica dell'arte. Con questa professione di fede si apre quella fase "moderna" della civiltà, in cui ancora viviamo e che si chiamerà, appunto, civiltà della tecnica.
Roma è insieme la Chiesa e lo Stato, il punto d'unione di potestà divina e autorità temporale, il luogo dove la portata dell'immaginazione è tanto maggiore quanto più vasta e profonda è la prospettiva della storia. Tutta l'opera del Bernini mira a fare di Roma una città immaginaria realizzata; quando, nel 1665, si recherà a Parigi per progettare il palazzo di Luigi XIV, non troverà l'ambiente adatto per la sua invenzione e la sua tecnica fallirà, per la prima volta, l'impresa.
Non solo nel Bernini ma in tutta la cultura del secolo alla prospettiva universalistica e ottimistica fa riscontro l'angoscia di una realtà ben diversa, il dubbio che l'immaginazione stessa sia inganno, che tutt'altra debba essere la giustificazione del fare umano, della tecnica. Il Borromini oppone al Bernini proprio una concezione opposta della tecnica e del suo valore etico. La stessa immaginazione ad oltranza del Bernini, la sua premura di realizzare sùbito e tutto celano appena il timore di una realtà opposta, così come l'appassionato amore della vita dissimula spesso l'angoscia della morte. L'interpretazione dell'opera berniniana in chiave di malinconia e di teatro (Fagiolo) è esatta, e corrisponde a un aspetto essenziale della coscienza del tempo: si pensi alla vita come sogno, inevitabile finzione, di Calderon. L'immaginazione-realtà del Bernini è il contraccolpo del realismo tragico del Caravaggio: se la realtà è mistero, morte, nulla, allora solo nell'immaginazione è la vita. Sotto la frenesia berniniana di riempire di immagini concrete tutto lo spazio, di conquistare sempre nuovo spazio per nuove immagini, si sente l'angoscia del vuoto.
Elementi della sua formazione: la tecnica consumata, virtuosistica del tardo Manierismo; l'antico; i grandi maestri del Cinquecento; il classicismo evocativo di Annibale. La tecnica è artificio; ha un aspetto magico; favorisce il gioco dell'ambiguità; è tanto più valida quanto più si dissimula. Può ottenere dall'architettura spazi aperti, soleggiati, ventosi; dalla scultura la morbidezza della seta, il tepore e il colorito delle carni, la levità dei capelli, lo stormire delle fronde. Ma non nasconde che il marmo è marmo e non seta, carne, capelli, foglie: provoca artificialmente la sensazione del reale e uccide così l'interesse per il reale. Se imita perfettamente la natura è solo per dimostrare che la natura non è nulla che l'uomo non possa rifare: non ne esalta, ne distrugge il significato. Di fatto, quando sotto l'imitazione perfetta si cerca la natura, si trova il mito, l'evocazione poetica di un valore che la natura aveva e non ha più. L'aveva per gli antichi: e il Bernini non s'interessa tanto della natura quanto del naturalismo ellenistico. Si rifà "alle forme estrose e corpose dell'ellenismo, nelle sue specie rodia, pergamena e alessandrina" (Faldi): una delle sue sculture giovanili, la capra Amaltea, è passata, fino a pochi decenni or sono, per ellenistica. L'arte ellenistica voleva rappresentare le cose non come sono ma come appaiono, non l'oggetto ma l'immagine. Ciò che interessa il Bernini è appunto questo valore dell'immagine come mera apparenza, la sua mancanza di un significato reale, la sua possibilità di caricarsi di significati diversi, allegorici. Nelle quattro statue per il cardinale Scipione Borghese (Enea e Anchise, Ratto di Proserpina, David, Apollo e Dafne: 1619-25) il processo formativo dell'artista appare ben chiaro. Nelle prime due mette a profitto, spregiudicatamente, il virtuosismo manieristico: il ritmo saliente, l'equilibrio dinamico del gruppo. Nella terza viene a staccarsi dall'interpretazione michelangiolesca: non esalta l'eroe, ma coglie l'istante dell'azione. È uno dei pochi, evidenti punti di contatto col Caravaggio e con la poetica del realismo. La supera sùbito nel quarto gruppo: due figure in corsa, quasi volanti, senza alcun nesso compositivo o d'equilibrio, ma esistenti nello stesso paesaggio di cui si vedono soltanto, immanenti alle figure stesse, pochi frammenti: un lembo di corteccia e una fronda d'albero. Dimentichiamo per un momento il tema mitologico e le sue possibili implicazioni allegoriche: la metamorfosi, il cambiare delle forme, la continuità tra essere umano e natura. Il modellato fluido e fremente fa sentire, insieme con i corpi, la luce e l'aria che li bagnano: la nostra immaginazione, guidata, ricompone il luogo, l'ora del fatto; si muove in quello spazio e in quel tempo mitici, dove anche il movimento diventa ritmo di danza. L'opera d'arte stimola l'immaginazione e, immediatamente, la soddisfa: il palpito vivo di quei corpi, di quei capelli scomposti la persuadono che quell'immagine mitica è la realtà e non ve n'è un'altra al di là di essa. L'antitesi realtà-immaginazione non ha più ragione di essere; l'immaginazione sostituisce interamente, annulla la realtà (lo si vede nella straordinaria ritrattistica berniniana). Allora la realtà non è più un problema: non la si guarda più con sgomento, come il Caravaggio, ma tutt'al più con curiosità, come faranno ormai i pittori "di genere".
Non si può, nel Bernini, disgiungere l'attività dello scultore da quella dell'architetto: sono complementari anche quando non si integrano nello stesso complesso. I lavori per San Pietro si succedono per più di quarant'anni senza un programma, ma con una coerenza perfetta: come un'idea che vada via via estendendosi, precisandosi. San Pietro è il monumento cristiano per eccellenza, il nucleo della civitas Dei-civitas hominum. La ricostruzione era durata più di un secolo; ora, con la facciata del Maderno (1612), poteva dirsi finita. Ma come? Tra il corpo centrale michelangiolesco e il corpo longitudinale maderniano non c'era raccordo; ed era difficile trovarlo perché i quattro enormi pilastri della cupola, intoccabili, formavano una strozzatura. Inoltre la navata era uno spazio nudo, senza forma.
Il Bernini parte dal centro, dal punto più sacro della chiesa: inventa il ciborio sotto la cupola; decora i quattro pilastri; passa a definire la prospettiva delle navate. Sistemato l'interno, si occupa dell'esterno: corregge la facciata maderniana ideando i due campanili laterali (fu costruito, ma presto abbattuto soltanto il sinistro) e, finalmente, costruisce il colonnato (1667).
Posto di fronte alla questione del ciborio, che altri aveva cercato di risolvere in termini architettonici, si rende conto che bisogna cercare in un'altra direzione. Un sacello, in quel punto, avrebbe interrotto la continuità prospettica dei quattro bracci della croce, ingombrato lo spazio vuoto sotto la cupola michelangiolesca; e una piccola architettura, nella grande, avrebbe ridotto la scala delle grandezze, abbassato il tono dello spettacolo architettonico proprio dove avrebbe dovuto raggiungere l'acme, nel punto più sacro. Capovolge i termini della questione: invece di un'architettura impiccolita progetta un "oggetto", un baldacchino processionale, ingrandito: come se una folla di fedeli in processione l'avesse portato fin là e là si fosse arrestata, alla tomba dell'Apostolo. Così, invece di un "calando", si avrà un "crescendo": una sorpresa, una scossa psicologica, un balzo dell'immaginazione. Ma non soltanto questo: le quattro aste del baldacchino, quattro poderose colonne bronzee ritorte, si avvitano nello spazio vuoto, lo mettono in vibrazione con il loro ritmo elicoidale e i riflessi del bronzo e dell'oro. È un fulcro che suggerisce una rotazione: alla centralità michelangiolesca, il Bernini ha sostituito una circolarità spaziale, un moto d'espansione, a spirale.
"La crociera di San Pietro è come un teatro circolare in cui la scena, anzi la macchina scenica (il baldacchino) si trova quasi al centro, e l'azione si svolge all'ingiro. Ma quel che conta non è la teatralità, ma l'azione in se stessa, in quanto compiuta allegoria della Passio Christi rappresentata simbolicamente attraverso i segni del martirio" (Fagiolo). Tra i vuoti prospettici dei quattro bracci si spingono innanzi le facce trasverse dei quattro pilastri, con due ordini di nicchie. In quelle in basso, più profonde, Bernini colloca quattro statue gigantesche; ne esegue una lui stesso, San Longino. In alto, oltre una balconata, sono le logge delle Reliquie, inquadrate da colonne tortili (quelle dell'antica pergula) che riprendono in circolo, come echi, il motivo delle colonne del baldacchino. La figura di Longino, con il suo gesto di attore declamante, è costruita in rapporto allo spazio del nicchione: con le braccia, come fossero ali, prende spazio, lo agita; il manto, senza alcun rapporto col corpo e col gesto, non è che una massa bianca affiorante, sconvolta da un turbine. Come negli Evangelisti della cupola del duomo di Parma: meglio del Barocci e di Annibale il Bernini ha capito che il Correggio è stato il primo a concepire l'arte come "scala" tra terra e cielo, anzi come forza trascinante e irresistibile e che lui, non Michelangiolo, è il punto di partenza di quello che si chiamerà il Barocco.
Il movimento è ritmo, non simmetria. Instaurato il principio di una spazialità in movimento, nulla impedisce di immaginare una rapida fuga prospettica: come quella, per esempio, che si vede nell'Eliodoro cacciato dal tempio, di Raffaello. Il Bernini non si limita a uniformare l'allineamento prospettico delle navate laterali graduando l'emergenza delle colonne addossate o incassate nei pilastri del corpo longitudinale; dando ad ogni campata una sorgente luminosa, trasforma l'ordinamento prospettico in un incalzante succedersi di ondate luminose. Come farà poi nella scala regia in Vaticano, sfruttando la gradinata come prospettiva accelerata e i ripiani come zone di luce intensa, che rompono l'ombra della volta a botte.
Le navate, con la loro corsa prospettico-luministica, raccordano lo spazio esterno, aperto, con la zona piena di luce alta e costante, quasi astratta, della crociera e della cupola. All'estremità opposta all'ingresso, quasi a suggerire un esito in cielo, collocherà (1657-66) la "macchina" della cattedra: un'immensa raggiera abbagliante, brulicante di angeli, che riversa nell'abside un fiume di luce dorata. Ed è un esempio sorprendente, ma all'origine ancora correggesco, di trasformazione di una struttura prospettica in struttura luministica.
Rientrano nella decorazione interna di San Pietro, aggiungendo personaggi allo spettacolo, le tombe monumentali dei papi (Urbano VIII, 1628-47; Alessandro VII, 1671-78), il monumento della Contessa Matilde (1633-37); le cappelle, tra cui quella del Sacramento, gli altari.
L'antica basilica aveva un quadriportico, il luogo dei catecumeni cioè dell'attesa. È, questo dello spazio esterno, il nuovo problema che si prospetta al Bernini. Prima di affrontarlo progetta i due campanili laterali alla facciata: progetto già del Maderno, che a sua volta l'aveva ripreso dal Bramante. Scopo: correggere la sproporzione della facciata troppo larga rispetto all'altezza, ridotta per lasciare in vista la cupola; inoltre, quei due montanti avrebbero inquadrato la cupola, facendola sembrare più vicina e collegandola alla facciata. Il Bernini, dunque, pensava già a riscattare la cupola michelangiolesca dalla condizione di sfondo e quasi d'orizzonte a cui la condannava il prolungamento della navata. Realizza questo proposito con il colonnato ellittico: che riprende la forma curva della cupola, la rovescia presentandola aperta come una coppa, la dilata trasformandola da rotonda in ellittica e suggerendo un'ulteriore espansione, a raggiera, con le prospettive delle quattro colonne allineate in profondità. Di tutte le invenzioni del Bernini, è la più geniale: non soltanto riscatta e mette in valore l'intero corpo della basilica, ma fa dell'antico quadriportico una grande piazza, l'anello che raccorda il monumento alla città (e, idealmente, a tutto il mondo cristiano: infatti è il luogo di raccolta e d'attesa dei pellegrini). È un'immagine allegorica (le braccia della Chiesa protese ad accogliere l'ecumene); ma è anche la prima architettura aperta, pienamente integrata allo spazio atmosferico e luminoso: la prima architettura urbanistica.
L'unità che il Bernini ha dato a San Pietro non è soltanto visiva: da nessun punto di vista si doveva vedere tutto l'edificio (la sciagurata via della Conciliazione, che riduce la basilica a fondale scenografico, è un'opera del regime fascista). Esso non si presentava come un organismo chiuso ma come una successione e variazione continua di prospettive e di aperture spaziali. Come ogni spettacolo, aveva i suoi tempi di sviluppo. È fatto per il visitatore che lo percorre, si aggira. Ogni nuova prospettiva si coordina a quelle vedute, prepara le prossime. L'ammirazione diventa un gioco di memoria e d'immaginazione: da potersi dire infine che la basilica vaticana, così come la presenta il Bernini, è più da immaginare che da vedere.
Benché in San Pietro non possa fare a meno di misurarsi con Michelangiolo, la radice dell'architettura del Bernini è soprattutto bramantesca: lo dimostra, ispirandosi al cortile di San Damaso in Vaticano, la sua prima architettura, il palazzo Barberini.
Succeduto al Maderno nel 1629, apre il blocco del palazzo, lo sviluppa in tre corpi ortogonali, ponendo la facciata al termine di una prospettiva, come un fondale arioso, che "ingrana" lo spazio antistante con le membrature aggettanti e poi lo accoglie nei grandi vuoti del portico e dei loggiati, lo "respira" con i larghi strombi delle finestre dell'ultimo piano. Il Bernini gioca allo scambio delle tipologie: è palazzo e villa, così come la facciata è facciata e parete di cortile, divisorio tra corte e giardino, scenario di feste e rappresentazioni teatrali.
L'idea di fondere lo spazio di natura e lo spazio urbano (ma anche la natura è storia, è la natura dei classici) è fondamentale nella poetica berniniana: sempre, quando può, porta l'acqua nel cuore della città. Le fontane diventano un elemento essenziale dell'arredamento urbano (la barcaccia in piazza di Spagna; delle api in via Veneto; dei fiumi in piazza Navona; del tritone in piazza Barberini). La fontana dei fiumi (1648-51) fa da piedestallo ad un obelisco egizio: la storia si erge sulla natura, ma su di essa si fonda. L'acqua sgorga impetuosa dalla roccia "al naturale", tra alberi scossi dal vento e le figure allegoriche dei continenti. Ma si può parlare di allegoria, se l'immagine si dà in modo così immediato e totale da togliere il desiderio di scoprire il significato recondito? Non sono immagini che traducono concetti; sono immagini che hanno in sé, e comunicano, la larghezza, la chiarezza, l'universalità del concetto. Si può anche ignorare che cosa propriamente significhino; non si può non essere presi dal senso della vita, del libero moto nello spazio, dell'entusiasmo per il mondo che esse comunicano. E l'entusiasmo per il mondo è entusiasmo per il passato, il presente e il futuro; per la natura e per la storia; per l'esperienza della vita e per ciò che è al di là di essa.
Numerosi i progetti, anche inattuati, di interventi nella determinazione della figura classico-moderna di demolizioni e ricostruzioni, riforme, restauri. Bernini vorrebbe poter modellare tutta la città con le sue mani, come fosse un'immensa scultura. Le chiese progettate nella sua maturità sono tutte a pianta centrale (Sant'Andrea al Quirinale; chiese dell'Ariccia e di Castelgandolfo). Sant'Andrea (1658) è ellittica, con l'asse maggiore nel senso della larghezza. Il punto di riferimento è il Pantheon, di cui negli stessi anni il Bernini progetta il restauro e la miglior sistemazione nell'ambiente urbano; né meraviglia che lo schema rotondo diventi ellittico come nel contemporaneo colonnato di San Pietro, dato che il Bernini tende sempre a ridurre la centralità a circolarità, evitando così la veduta privilegiata dal centro, moltiplicando i punti di vista e dando allo spazio un andamento orbitale. Il fatto nuovo (ma coincidente con l'analoga ricerca di Pietro da Cortona in Santa Maria della Pace), è il totale disimpegno dell'immagine spaziale dall'equilibrio dei pesi e delle spinte. All'interno è fortemente accentuato l'anello strutturale forma to dalle lesene, dal cornicione, dall'inquadratura dell'altare. Quest'ultima, per le grandi dimensioni e lo spicco delle colonne affiancate e del timpano, è quasi una facciata portata all'interno: è come il boccascena di un teatro aperto sul palcoscenico intensamente illuminato. Al di là dell'anello strutturale lo spazio sprofonda nelle cappelle radiali o si espande in chiaroscuri sfumati nella cavità della cupola: indefinito come uno sfondo di cielo dietro il solido primo-piano di un quadro. Lo spazio è dunque reso mediante larghe, espanse zone di luce e di ombra: la massima luce concentrandosi nel vano dell'altare, che ha le sue sorgenti dirette e nascoste, come fosse appunto il palcoscenico di un teatro.
L'inquadratura dell'altare "fa facciata" molto più della facciata vera e propria. Questa (o, più propriamente, quanto della chiesa si vede dalla strada) appare scomposta in tre elementi: la parte visibile del perimetro convesso della chiesa; le due basse ali che ne invertono la curvatura collegando il corpo dell'edificio al filo della strada; un piccolo prospetto fortemente plastico, che inquadra entro il telaio robusto delle membrature il pronao semicircolare (si confronti con quello di Pietro da Cortona in Santa Maria della Pace). Più che una facciata è un apparato che commenta e magnifica l'ingresso alla chiesa: un altissimo a solo plastico, accompagnato dai chiaroscuri sommessi, modulati sulle pareti curve. La coerenza strutturale è smembrata, dissolta in un movimento ritmico, quasi musicale.
Scorre in tutta l'opera del Bernini, scendendo dalle remote fonti ellenistiche alla più commossa e cristiana ispirazione del Correggio, una vena lirica che può esprimersi nell'ègloga o nell'idillio (le fontane) o nell'inno pindarico (la scala regia) e perfino nell'epigramma (l'elefante della Minerva). Sant'Andrea è il vertice della lirica architettonica berniniana. Come si dissolve il tipo architettonico classico negli edifici della maturità, così si dissolve la figura nelle più alte sculture del Bernini: come l'Estasi di Santa Teresa, la Beata Ludovica Albertoni, gli Angeli ora in Sant'Andrea delle Fratte. S'è parlato anche troppo dell'accento ambiguo, tra mistico ed erotico, di queste immagini: le più conturbanti tra quante ne ha lasciate il Seicento. L'ambiguità è piuttosto tra ispirazione lirica e tragica; e non tanto è ambiguità, quanto un sommarsi, un reciproco stimolarsi delle qualità dell'una e dell'altra. Accade in queste opere quello che accade nelle tragedie di Racine (basti pensare alla Fedra), quando il teatro cessa di essere finzione, e al dialogo succede il monologo, la solitudine dell'eroina nell'ineluttabile necessità della morte. Più nulla, neppure il suo dramma ormai chiuso, la lega al mondo; e la sua passione, da impura e mondana che era, sale sublimandosi fino a diventare passione morale ed a farla morire, bensì, ma d'amore.

tratto da Carlo Giulio Argan Storia dell'Arte Italiana