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Palazzo Braschi

Sede del Museo di Roma dal 1792

Palazzo Braschi
Palazzo Braschi

Opera di Cosimo Morelli, edificato da Pio VI Braschi nel 1791 sopra l'area di quello che fu già degli Orsini e dei Caracciolo di Santobuono. Ammirevole ne è lo scalone. Per 50 anni fu sede del Ministero degli Interni. (Blasi)

Dal 1952 è sede del Museo di Roma con una raccolta a ricordo della Roma medioevale e moderna.

Pio VI Braschi (1755-1800) bramoso di conservare il cognome della sua famiglia, antica e nobile di Cesena, essendo egli unico figlio maschio del conte Marco Aurelio e della contessa Anna Teresa Bandi di Cesena, chiamò a Roma i due figli di sua sorella Giulia, maritata al conte Onesti, Romualdo e Luigi, li adottò nella propria famiglia col cognome Braschi, diede loro l'arma, fece il primo maggiordomo nel 1780 ed al secondo diede buon assegnamento ed il palazzo da lui abitato a Campo Marzio durante il suo cardinalato, poscia, col titolo di duca di Nemi, che comprò col feudo dai Frangipani l'unì in matrimonio con Costanza Falconieri. Ad ambedue i nipoti, creati duchi, fece edificare dall'architetto cavalier Cosimo Morelli il palazzo, l'ultimo dei palazzi monumentali, che è ora sede del Ministero dell'interno, nel 1791 su quello già esistente e che pagò 50 mila scudi ai Caracciolo Santobuono. Proprio su quell'area sorgeva il bello e vastissimo edificio fatto dal Sangallo per il cardinale Antonio del Monte mentovato dal Vasari, che fu posseduto prima dalla duchessa di Trèmouille, poi dagli Orsini e infine dai suddetti Caracciolo di Santobuono e che barbaramente fu raso a terra. Un'incisione di Israel Silvestre per fortuna ci ricorda la facciata dell'antico palazzo del Sangallo: quelle del Falda e del Piranesi già contengono notevoli cambiamenti.

Il palazzo moderno è di architettura regolare, severa, in muro a cortina, fortificato al pianterreno e al mezzanino da un bugnato di travertino sulle cui fasce è la decorazione della testa di leone con una pigna in bocca, emblema dei Braschi, ma il tutto e monotono e senza carattere. Si compone di due piani nobili, intorno al primo dei quali dalla parte di San Pantaleo ricorre una bella loggia sostenuta, nel portone, da due colonne doriche. Vi sono poi altri due portoni, uno rispondente sulla piazza Navona e l'altro nella via di S. Pantaleo, il quale da in un grandioso vestibolo, a destra del quale sorge lo scalone più bello e ricco del mondo, che forma forse, anzi certo, l'unico e reale pregio artistico del palazzo. Si compone di due sole rampe con colonne di granito rosso, pilastri e rivestimenti in marmo di vari colori e con le volte decorate da arabeschi e da pitture.

Nel piano nobile era il celebre Antinoo, acquistato da Gregorio XVI pel suo museo gregoriano-lateranense.Vi erano altre statue antiche, tazze di marmo, sarcofaghi e quadri di autore. Notevole è anche il cornicione dal largo e severo fregio sottostante.

Sul cantone del palazzo, guardante piazza Pasquino, vi è il torso della celebre statua chiamata Pasquino, che fu ivi scavato al principio del secolo XVI e che rappresenta Ercole seduto, oppure, più probabilmente, Menelao che sostiene e difende il corpo di Patroclo.

Nelle vicinanze di questa piazza vi era un sarto chiamato Pasquino, fecondo di motti pungenti e satirici, per cui la sua bottega era il convegno degli oziosi e maldicenti. Dopo la sua morte fu ritrovata la suddetta statua avanti alla porta della sua bottega ed il popolino le affibbiò subito il nomignolo di Pasquino a cui i suoi amici cominciarono ad attaccare cartelli, che poi si chiamarono pasquinate e l'uso si perpetuò. Tutti passarono sotto la sua sferza fino a che Adriano VI, annoiato, pensò di far gettare la monca statua nel Tevere, ma ne fu dissuaso da un cameriere che gli disse che allora Pasquino si sarebbe fatto sentire più forte dalle rane che sono in fondo alle paludi e che riducendolo in polvere, i poeti ed i seguaci di Pasquino, ne avrebbero celebrato ogni anno l'anniversario del supplizio con funerali pieni di sarcasmi, lacerando la memoria di colui che avealo processato. E così per fortuna Pasquino rimase.

Qualche tempo dopo in una strada vicina si trovò un altro tronco di statua che si chiamò Marforio, sul quale si mettevano le risposte alle diatribe di mastro Pasquino. Questa la leggenda.

L'origine poi di queste pasquinate va invece ricercata in una specie di accademia tenuta all'angolo del palazzo d'un cardinale, all'aria aperta, con intervento di saputi e di mezzo saputi, con uno spunto d'arte, dappoichè vi prestavano l'opera loro anche i pittori.