Tesori di Roma: foto di Roma gratis

BEATRICE CENCI

La Roma di Stendhal

Chiesa di San Pietro in Montorio

Sabato mattina, 11 settembre 1599, i primi signori di Roma, membri della confraternita dei confortatori, si recarono alle due prigioni, a Corte Savella, dov'erano Beatrice e la sua matrigna, e a Tordinona, dove si trovavano Giacomo e Bernardo Cenci. Per tutta la notte dal venerdì al sabato, i signori romani che avevano saputo quel che stava accadendo non fecero altro che correre dal palazzo di Monte Cavallo a quelli dei più autorevoli cardinali, per ottenere almeno che le donne fossero giustiziate all'interno della prigione, e non su un infame patibolo; e che si facesse grazia al giovane Bernardo Cenci, che, appena quindicenne, non poteva aver partecipato a nessun complotto. Soprattutto il nobile cardinale Sforza si è distinto per il suo zelo durante quella notte fatale, ma, benché principe così potente, non ha potuto ottenere nulla. Il delitto di Santa Croce era un delitto vile, commesso per denaro, mentre il crimine di Beatrice fu commesso per salvare l'onore. Mentre i cardinali più potenti facevano tanti passi inutili, Farinacci, il nostro grande giurista, ebbe l'audacia di farsi strada fino al papa; arrivato davanti a Sua Santità, quest'uomo sorprendente fu così abile da toccare la sua coscienza, e infine, a furia di insistere, gli strappò la vita di Bernardo Cenci.
Quando il papa pronunciò questa grande parola, potevano essere le quattro del mattino (del sabato 11 settembre). Tutta la notte si era lavorato, sulla piazza di ponte Sant'Angelo, ai preparativi della crudele tragedia. Però tutte le copie necessarie della sentenza di morte non poterono esser terminate che alle cinque del mattino, di modo che soltanto alle sei fu dato il fatale annuncio a quei poveri sventurati che dormivano tranquillamente.

La ragazza, sulle prime, non riusciva nemmeno a trovare la forza di vestirsi. Gettava grida acute e continue, e si abbandonava senza ritegno alla più atroce disperazione. «Com'è possibile, ah! mio Dio!» esclamava, «che così all'improvviso io debba morire?» Lucrezia Petroni, invece, disse solo parole molto dignitose; prima pregò in ginocchio, poi esortò tranquillamente sua figlia a recarsi con lei nella cappella, dove entrambe dovevano prepararsi al grande passaggio dalla vita alla morte. Quelle parole resero a Beatrice tutta la sua tranquillità; tanto si era mostrata eccitata e furiosa nel primo momento, altrettanto fu calma e ragionevole non appena la matrigna richiamò quella grande anima a se stessa. Da allora in poi, fu uno specchio di coraggio che tutta Roma ammirò. Chiese un notaio per fare testamento, e ciò le fu accordato. Dispose perché il suo corpo fosse seppellito a San Pietro in Montorio; lasciò 300.000 franchi alle Stimmatine (religiose delle Stimmate di San Francesco); questa somma deve servire alla dote di cinquanta ragazze povere. Tale esempio commosse la signora Lucrezia, che, anche lei, fece testamento e ordinò che il suo corpo fosse portato a San Giorgio; lasciò 500.000 franchi in elemosina a questa chiesa, e dispose altri pii legati. Alle otto, si confessarono, ascoltarono la messa, e ricevettero la santa comunione. Ma prima di andare a messa, la signora Beatrice pensò che non fosse conveniente comparire sul patibolo, davanti a tutto il popolo, con i ricchi abiti che portavano. Ordinò due vesti, una per lei, l'altra per sua madre. Queste vesti furono fatte come quelle delle monache, senza ornamenti sul petto e sulle spalle, soltanto pieghettate con larghe maniche. La veste della matrigna era di tela di cotone nera; quella della giovane di taffetà azzurro con una grossa corda che stringeva la cintura. Quando portarono i vestiti, la signora Beatrice, che era in ginocchio, si alzò e disse alla signora Lucrezia: «Signora madre, l'ora della nostra passione si avvicina; sarà bene che ci prepariamo, che mettiamo questi altri abiti, e che ci aiutiamo per l'ultima volta a vestirci l'un l'altra.» Sulla piazza di ponte Sant'Angelo era stato innalzato un grande patibolo con un ceppo e una mannaja (specie di ghigliottina). Verso le tredici (le otto del mattino), la compagnia della Misericordia recò il suo grande crocifisso alla porta della prigione. Giacomo Cenci uscì per primo dalla prigione; s'inginocchiò devotamente sulla soglia, disse le sue preghiere, e baciò le sante piaghe del crocefisso. Era seguito da Bernardo Cenci, il suo giovane fratello, che aveva anche lui le mani legate e una tavoletta davanti agli occhi. La folla era enorme, e vi fu un tumulto a causa di un vaso che cadde da una finestra, quasi sulla testa di uno dei penitenti che teneva una torcia accesa accanto allo stendardo. Tutti guardavano i due fratelli, quando all'improvviso si fece avanti il fiscale di Roma, e disse: «Signor Bernardo, Nostro Signore vi fa grazia della vita; sottomettetevi ad accompagnare i vostri parenti e pregate Dio per loro.» Subito i suoi due confortatori gli tolsero la tavoletta che aveva davanti agli occhi. Il carnefice stava sistemando sul carretto Giacomo Cenci, e gli aveva tolto l'abito per poterlo attanagliare. Quando il carnefice arrivò a Bernardo, verificò la firma dell'atto di grazia, lo slegò, e, poiché era senz'abito dovendo essere suppliziato, il carnefice lo mise sul carretto e lo avvolse nel ricco mantello di panno gallonato d'oro. (Si è detto che era lo stesso dato da Beatrice a Marzio dopo l'azione nella rocca di Petrella). L'immensa folla che era in strada, alle finestre e sui tetti, d'un tratto si commosse; si sentiva un rumore sordo e profondo, si cominciava a dire che il ragazzo era stato graziato. I canti dei salmi iniziarono e la processione si avviò lentamente attraverso piazza Navona verso la prigione Savella. Giunta che fu alla porta della prigione, lo stendardo si fermò, le due donne uscirono, fecero l'atto di adorazione ai piedi del crocefisso, e poi s'incamminarono a piedi l'una dopo l'altra. Erano vestite come si è detto, la testa coperta da un gran velo di taffetà che arrivava fin quasi alla vita.

La signora Lucrezia, nella sua qualità di vedova, portava un velo nero, e babbucce di velluto nero senza tacco, secondo l'usanza. Il velo della giovane era di taffetà azzurro, come la sua veste; aveva poi un gran velo di drappo d'argento sulle spalle, una gonna di drappo viola, e babbucce di velluto bianco, allacciate con eleganza e chiuse da cordoncini color cremisi. Nell'incedere in questo costume, aveva una grazia singolare, e a tutti salivano le lacrime agli occhi man mano che la vedevano avanzarsi lentamente nelle ultime file della processione. Le donne avevano entrambe le mani libere, ma le braccia legate al corpo, di modo che ciascuna di loro poteva portare un crocefisso; lo tenevano vicinissimo agli occhi. Le maniche delle loro vesti erano molto larghe, lasciando scorgere le braccia, che erano coperte da una camicia stretta ai polsi, come si usa qui. La signora Lucrezia, che aveva il cuore meno saldo, piangeva quasi in continuazione; la giovane Beatrice, invece, mostrava un grande coraggio; e levando gli occhi verso tutte le chiese davanti a cui passava la processione, s'inginocchiava per un istante, e diceva con voce ferma: «Adoramus te, Christe!» Nel frattempo, il povero Giacomo Cenci veniva suppliziato sul carretto, e mostrava molta costanza. La processione poté attraversare a stento la parte inferiore della piazza di ponte Sant'Angelo, tanto grande era il numero delle carrozze e la folla del popolo. Si condussero senza indugio le due donne nella cappella che era stata preparata; in seguito vi si condusse Giacomo Cenci. Il giovane Bernardo, coperto del suo mantello gallonato, fu portato direttamente sul patibolo; allora tutti credettero che sarebbe stato ucciso, e che non avesse ricevuto la grazia. Il povero ragazzo ebbe una tale paura, che cadde svenuto al secondo passo che fece sul patibolo. Lo si fece rinvenire con dell'acqua fresca, collocandolo poi di fronte alla mannaja. Il carnefice andò a prendere la signora Lucrezia Petroni; le sue mani erano legate dietro la schiena, non aveva più il velo sulle spalle. Apparve sulla piazza accompagnata dallo stendardo, con la testa avvolta nel velo di taffetà nero; là si riconciliò con Dio e baciò le sante piaghe. Le dissero di lasciare le babbucce sul lastricato; poiché era molto corpulenta, fece un po' fatica a salire. Quando fu sul patibolo e le fu tolto il velo di taffetà nero, soffrì molto d'esser veduta con le spalle e il petto scoperti; si guardò, poi guardò la mannaja, e, in segno di rassegnazione, alzò lentamente le spalle; le vennero le lacrime agli occhi, e disse: «O mio Dio!... E voi, fratelli miei. pregate per la mia anima!» Non sapendo cosa dovesse fare, chiese ad Alessandro, primo carnefice, come doveva comportarsi. Egli le disse di mettersi a cavalcioni sull'asse del ceppo. Ma questo movimento le parve offensivo per il pudore, e ci mise molto tempo a farlo. (I particolari che seguono sono tollerabili per il pubblico italiano, che tiene a sapere ogni cosa con la massima esattezza; al lettore francese basti sapere che il pudore della povera donna fece sì che si ferisse al petto; il carnefice mostrò la testa al popolo e poi l'avvolse nel velo di taffetà nero). Mentre si metteva in ordine la mannaja per la ragazza, un'impalcatura carica di curiosi cadde, e molta gente restò uccisa. Così comparvero dinanzi a Dio prima di Beatrice. Quando Beatrice vide lo stendardo tornare verso la cappella per prenderla, disse con vivacità: «La mia signora madre è davvero morta?» Le risposero di sì; ella si gettò in ginocchio davanti al crocefisso, e pregò con fervore per la sua anima. Poi parlò a voce alta e a lungo al crocefisso. «Signore, sei ritornato per me, e io ti seguirò di buon grado, non disperando della tua misericordia per il mio enorme peccato, ecc.» In seguito recitò diversi salmi e orazioni, sempre in lode di Dio. Quando infine il carnefice le comparve davanti con una corda, disse: «Lega questo corpo che dev'essere castigato, e libera quest'anima che deve arrivare all'immortalità e alla gloria eterna. »

Allora si levò, disse le sue preghiere, lasciò le babbucce in fondo alla scala, e salita sul patibolo passò lesta la gamba sopra l'asse, posò il collo sotto la mannaja, e si sistemò da sola alla perfezione per evitare d'esser toccata dal carnefice. Con la rapidità dei suoi movimenti, evitò che, nel momento in cui le fu tolto il suo velo di taffetà, il pubblico le vedesse le spalle e il petto. Ci volle molto prima che il colpo fosse vibrato, perché sopravvenne un inconveniente. Nel frattempo, ella invocava ad alta voce il nome di Gesù Cristo e della santissima Vergine. Il corpo ebbe un grande sussulto al momento fatale. Il povero Bernardo Cenci, che era sempre rimasto seduto sul patibolo, cadde di nuovo svenuto, e ai suoi confortatori occorse ben più di mezz'ora per rianimarlo. Allora comparve sul patibolo Giacomo Cenci; ma anche qui bisogna sorvolare su particolari troppo atroci. Giacomo Cenci fu mazzolato. Bernardo fu ricondotto subito in prigione, aveva la febbre alta, gli fu fatto un salasso. In quanto alle povere donne, ciascuna fu accomodata nella sua bara, e deposta a qualche passo dal patibolo, presso la statua di san Paolo che è la prima a destra sul ponte Sant'Angelo. Restarono lì fino alle quattro e un quarto dopo mezzogiorno. Intorno ad ogni bara ardevano quattro candele di cera bianca. In seguito, con quel che restava di Giacomo Cenci, furono portate al palazzo del console di Firenze. Alle nove e un quarto di sera, il corpo della giovane, vestito dei suoi abiti e incoronato di fiori a profusione, fu portato a San Pietro in Montorio. Era di un'incantevole bellezza; sembrava che dormisse. Fu sepolta davanti all'altar maggiore e alla Trasfigurazione di Raffaello da Urbino. Era accompagnata da cinquanta grandi ceri accesi e da tutti i frati francescani di Roma. Lucrezia Petroni fu portata, alle dieci di sera, alla chiesa di San Giorgio. Durante questa tragedia, la folla era innumerevole; fìn dove poteva spingersi lo sguardo, si vedevano le strade piene di carrozze e di gente, le impalcature, le finestre e i tetti coperti di curiosi. Il sole era tanto ardente quel giorno che molte persone perdettero conoscenza. Un numero infinito prese la febbre; e quando tutto fu terminato, alle diciannove (le due meno un quarto), e la folla si disperse, molte persone furono soffocate, altre schiacciate dai cavalli. Il numero dei morti tu molto considerevole. La signora Lucrezia Petroni era piuttosto piccola di statura, e benché avesse cinquant'anni, era ancora molto ben portante. Aveva bellissimi lineamenti, il naso piccolo, gli occhi neri, il viso molto bianco dal bel colorito; aveva pochi capelli ed erano castani. Beatrice Cenci, che ispirerà un eterno rimpianto, aveva sedici anni giusti; era piccola; era piacevolmente grassottella e aveva delle fossette in mezzo alle guance, di modo che, morta e incoronata di fiori, si sarebbe detto che dormisse, e anzi che ridesse, come le accadeva spesso quando era in vita. Aveva la bocca piccola, i capelli biondi e naturalmente ricci. Andando alla morte questi capelli biondi e inanellati le ricadevano sugli occhi, e ciò le dava una certa grazia e induceva alla compassione. Giacomo Cenci era di piccola statura, grosso, col viso bianco e la barba nera; aveva press'a poco ventisei anni quando morì. Bernardo Cenci assomigliava in tutto a sua sorella, e, siccome portava i capelli lunghi come lei, molta gente, quando comparve sul patibolo, lo scambiò per Beatrice. Il sole era stato così ardente, che molti spettatori di questa tragedia morirono durante la notte, e fra loro Ubaldino Ubaldini, giovane di rara bellezza, che prima godeva di perfetta salute. Era fratello del signor Renzi, molto conosciuto a Roma. Così le ombre dei Cenci se ne andarono in buona compagnia. Ieri, martedì 14 settembre 1599, i penitenti di San Marcello, in occasione della festa della Santa Croce usufruirono del loro privilegio per liberare dalla prigione il signor Bernardo Cenci, che si è obbligato a pagare entro un anno 400.000 franchi alla Santissima Trinità di ponte Sisto.

tratto da "Cronache Romane" di Stendhal