Tesori di Roma: foto di Roma gratis

Il FORO ROMANO

ANATOLE FRANGE

Foro Romano

Alcuni Francesi, amici fra loro, che solevano passare a Roma la primavera, s'incontravano sovente nel Foro dissotterrato. Erano essi Giuseppino Ledere, addetto d'ambasciata m licenza; il signor Goubin, laureato in lettere, compilatore d'inventari; Nicola Langelier, dell'antica famiglia parigina dei Langelier, stampatori e umanisti; Giovanni Boilly, ingegnere;

Ippolito Dufresne, benestante, che amava le belle arti.

Il 1° maggio, verso le cinque di sera, essi passarono, come al solito, per la porticina settentrionale, sconosciuta al pubblico, presso la quale il commendatore Giacomo Boni, direttore degli scavi, li accolse con la sua silenziosa giocondità e li condusse fino alla soglia della sua casa di legno, ombreggiata d'allori, da ligustri e da citisi, che domina la vasta fossa scavata, nel secolo scorso, nel mercato de' bovi della Roma pontificia, fino al limite dell'antico Foro.

Colà si arrestarono guardando.

Avanti ad essi s'innalzavano i fusti troncati delle stele onorarie. Al posto ove sorgeva la basilica Giulia si scorge ora come un vasto scacchiere con le sue dame. Più a sud, le tre colonne del tempio dei Dioscuri tuffano le loro smaglianti volute nell'azzurro del cielo. A destra, elevandosi sull'arco ruinato di Settimio Severo e le alte colonne dei templi di Saturno, le case della Roma cristiana e l'ospedale delle donne prospettano verso il Campidoglio le loro facciate più gialle e più fangose delle acque del Tevere. Alla loro sinistra s'innalza il Palatino, fiancheggiato da grandi archi rossi e coronato da lecci. E ai loro piedi, da un monte all'altro, fra il lastricato della via Sacra, stretta come una straducola di villaggio, escono dal suolo muri di mattoni e basamenti di marmo, vestigia di edifici che coprivano il Foro al tempo della potenza latina. Il trifoglio, l'avena e l'erba dei campi, seminati dal vento sulle loro basse vette, formano rustici tetti fra cui fiammeggia il papavero. Avanzi di cimase crollate, moltitudini di pilastri e d'altari, grovigli di scale e di recinti: tutto ciò, non piccolo, certamente, ma d'una grandezza contenuta e compressa.

Senza dubbio Nicola Langelier ricostruiva con la sua immaginazione la folla dei monumenti che s'innalzavano una volta in quello spazio illustre.

- Questi edifici - disse - giustamente proporzionati e di moderate dimensioni, erano separati, gli uni dagli altri, da viuzze ombrose. Fra queste vi eran di quei sentieri che si amano nei paesi del sole, e i magnanimi nipoti di Remo, dopo aver ascoltato gli oratori, dovevan trovare, lungo le pareti dei templi, treschi ma poco odorosi cantucci per mangiare e dormirvi, ove le bucce di cocomero e i gusci di chiocciole non avevano mai l'onore di un colpo di scopa. Certo, le bottegucce, che costeggiavano la piazza, esalavano acutissimi odori di cipolla, di vino, di frittura e di formaggio. I banchi dei macellai eran carichi di carni, grato spettacolo per quei robusti cittadini, ed è da uno di quei beccai che Virginio tolse il coltello con cui uccise sua figlia. Vi erano anche, senza dubbio, dei gioiellieri e dei mercanti di piccoli dèi domestici, protettori del focolare, della casa e del giardino. Tutto ciò che abbisogna alla vita dei cittadini si trovava riunito in questo luogo. Il mercato e i magazzini, le basiliche, e cioè le borse di commercio e i tribunali civili; la curia, quel consiglio municipale divenuto l'amministratore dell'universo; le carceri, dai cui sotterranei esalava un insopportabile fetore; i templi, gli altari, primissime necessità per gli Italiani che hanno sempre qualche cosa da chiedere alle potenze celesti.

" È qui, infine, ove si svolsero, durante tanti secoli, le azioni della plebe o dei singoli, quasi sempre insipide, sovente odiose o ridicole, qualche volta generose, il cui complesso costituisce la vita augusta di un popolo.

- Cos'è quel che si vede, nel centro della piazza, innanzi ai basamenti delle stele onorarie? - domandò il signor Goubin che col suo occhialino notava una novità nell'antico Foro e voleva informarsene.

Giuseppino Ledere gli rispose cortesemente ch'erano le fondamenta del colosso di Domiziano di recente dissepolte. Quindi egli indicò col dito, l'un dopo l'altro, i monumenti dissotterrati da Giacomo Boni durante cinque anni di scavi fruttuosi: la fontana e il pozzo di Giuturna, sotto il Palatino;

l'altare innalzato sul rogo di Cesare, il cui zoccolo si stendeva ai loro piedi, in faccia ai Rostri; la stele arcaica e la leggendaria tomba di Remolo che copre la pietra nera del Comizio; e il " lago " di Curzio.

Il sole, sceso dietro il Campidoglio, colpiva con i suoi ultimi raggi l'arco trionfale di Tito sul colle Velio; il ciclo al cui occidente navigava la luna bianca, rimaneva turchino come in pien meriggio. Un'ombra eguale, tranquilla e chiara empiva il Foro silenzioso. Gli abbronzati sterratori scavavano quel campo petroso, mentre, continuando il lavoro degli antichi re, i loro compagni giravano la ruota d'un pozzo per trame l'acqua che bagna tutt'ora il letto ove dormiva, al giorni del pio Numa, il Velabro cinto da canneti.

Svolgevano il loro lavoro con ordine e vigilanza. Ippolito Dufresne, che da molti mesi li vedeva assidui a quell'opera, intelligenti e pronti ad eseguire gli ordini ricevuti, chiese al direttore degli scavi come facesse ad ottenere dai suoi uomini un sì buon servizio.

- Vivendo come loro - rispose Giacomo Boni. - Io rimovo con essi la terra, dico loro quel che stiamo cercando insieme, taccio sentire a tutti la bellezza della opera nostra comune. Essi s'interessano ai lavori di cui sentono in confuso la grandezza; li ho veduti pallidi d'entusiasmo quando hanno dissepolto la tomba di Remolo. Io sono il loro compagno d'ogni giorno e, se l'un di essi cade malato, vado a sedermi al suo capezzale. Confido in loro com'essi confidano in me: ecco in che modo ho dei fedeli operai.

- Boni, mio caro Boni - esclamò Giuseppino Ledere, - sapete quanto ammiri i vostri lavori e quanto mi commuovano le vostre belle scoperte; nonostante, lasciate che ve lo dica, rimpiango il tempo in cui le mandrie passavano sul Foro sepolto. Un bove bianco, con le corna allargate sulla vasta fronte ruminava nel campo deserto; un mandriano sonnecchiava al piede d'un'alta colonna che sorgeva dall'erbe. E l'uomo pensava: " Qui, fu agitata la sorte del mondo". Poi ch'esso cessò d'essere il Campo Vaccino, il Foro è perduto per i poeti e per gl'innamorati.

Da Sur la pierre bianche, romanzo.