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20 - La Repubblica Romana del 1849

3 giugno 1849: La battaglia di Porta San Pancrazio parte 4

Panorama dell'assedio di Roma nel giugno 1849
Panorama dell'assedio di Roma nel giugno 1849

LA REPUBBLICA ROMANA: 3 giugno 1849 p4

IL TRE GIUGNO — VILLA CORSINI.

Villa Corsina, Casa dei Quattro Venti,

fumida prua del Vascello protesa

nella tempesta, alti nomi per sempre

solenni come Maratona, Platea,

Cremerà, luoghi già d'ozii di piaceri

di melodie e di magnificenze

fuggitive, orti custoditi da cieche

statue ed arrisi da fontane serene,

trasfigurati subito in rossi inferni

vertiginosi.

D'ANNUNZIO : La Canzone di Garibaldi.

Il 31 maggio, il giorno del ritorno di Garibaldi a Roma, De Lesseps e i Triumviri firmavano un concordato secondo il quale i francesi dovevano proteggere Roma e i suoi dintorni contro l'Austria, Napoli, il mondo intero, ma acquartierarsi fuori della città. Poiché non vi si faceva menzione né della restaurazione del Papa da una parte, né della continuità della Repubblica dall'altra, le vere questioni in pendenza venivan rimandate al poi ; tutti i vantaggi intanto erano per i romani, nessuno per i francesi. Firmando patti in tutto opposti allo spirito e alle intenzioni di coloro che egli rappresentava, il De Lesseps aveva avuto abbastanza buon senso da aggiungere in una clausola, che il trattato doveva esser ratificato dalla Repubblica Francese. Ma il Governo a cui egli si appellava, aveva a quell'ora già gettato la maschera e spedito un dispaccio che metteva fine alla sua missione e gli imponeva di ritornare senza indugio. I rinforzi per l'Oudinot erano ormai a portata di mano ; l'esercito francese s'era accampato a un miglio o due da Roma, a tiro degli avamposti italiani. Vi erano sul posto 20,000 uomini, più sei batterie d'artiglieria, dei cannoni d'assedio e un buca numero di eccellenti zappatori e ingegneri pronti a mettere in pratica i piani scientifici del Vaillant per la conquista di Roma ; altri 10,000 e più, come pure il resto del treno d'assedio, e altri ingegneri, dovevano arrivare a date fisse dentro il mese. Perciò quando il messaggero di pace portò al campo il suo trattato, l'Oudinot, letta a malapena la clausola che stipulava r acquartierarsi del suo esercito fuori le mura di Roma, scoppiò in una violenta tirata contro di lui e gl'impose di levarglisi dai piedi; il giorno dopo (il primo giugno) egli informava i romani che la tregua era spirata. Ma la lettera con cui egli informava il Roselli che l'armistizio era denunziato, aveva carattere estremamente ambiguo perchè dichiarava che si potevan riassumere subito le ostilità e nello stesso tempo aggiungeva che egli non darebbe l'attacco « alla piazza » prima del lunedì 4 giugno, a fine di dare ai francesi residenti in Roma il tempo di lasciare la città. La sua intenzione reale era di sorprendere e occupare gli avamposti (Pamfili e Corsini) il 3 giugno, nelle prime ore del giorno. Servendosi della vaga parola piace, e interpretandola per proprio conto a non includere gli avamposti, mentre per tutti gli altri implicava la garanzia che ogni operazione contro Roma era sospesa fino al lunedì, egli aveva cullata la beata trascuraggine italiana in una sicurezza fatale, e allo stesso tempo sopiti gli scrupoli della sua coscienza, poiché è a sapersi ch'egli era, come ebbe a notare il capitano Key, « rigidamente cattolico e religiosissimo ». Secondo lo storico francese clericale La Gorce, il tranello per cui l'Oudinot s'impossessò così facilmente della chiave di Roma non richiede spiegazioni o non ne ammette, poiché egli non ne fa menzione ; ma lo storico italiano Spada, anche lui clericale, conviene nell'opinione generale che l'azione non si può giustificare agli occhi altrui con il bisticcio che la giustificò agli occhi dell'Oudinot stesso. (Spada, III. 584-585). In vista del recente tentativo del Bittard des Portes a giustificare l'Oudinot io ho consultato alte autorità militari sul significato che la sua lettera avrebbe per un soldato.

L'intimazione di guerra dell'Oudinot, ricevuta all'imprevista il giorno dopo che il trattato di pace e d'alleanza era stato firmato, svegliò di soprassalto gl'italiani dal sogno roseo di sguinzagliarsi dietro le uniformi bianche sugli Appennini, alla realtà in prospettiva di esser tagliati a pezzi in Roma da fratelli in repubblicanesimo. Il 2 giugno il Triumvirato domandò a Garibaldi la sua opinione confidenziale sulla crisi e egli suggerì un rimedio disperato come la loro situazione : dichiarò che avrebbero dovuto crearlo Dittatore (*). Il consiglio fu dato nello stesso spirito in cui era stato domandato, con perfetta buona fede e nell'interesse pubblico ; quando fu respinto, egli lasciò cadere la cosa, sebbene vi fossero allora in Roma molti politicanti non d'altro desiderosi che di agitarsi a sostegno di lui se soltanto egli avesse consentito a mettersi alla loro testa, e che anche senza il suo consenso fecero qualche tentativo a quel fine. Con la sua semplicità e il suo savio discernimento di marinaio e guerriero, politicamente ammaestrato soltanto alla scuola delle Repubbliche Americane del Sud, egli era convinto che un'onesta dittatura fosse il mezzo migliore per affermare la volontà del popolo nelle crisi supreme.

(*)Giacché mi chiedete ciò che io voglio, ve lo dirò : qui io non posso esistere per il bene della Repubblica che in due modi : O dittatore illimitatissimo, o milite semplice. Scegliete. Invariabilmente vostro G. GARIBALDI ».

Dal principio alla fine della sua vita, gli parve sempre che la divisione dell'autorità e il governo per assemblea fossero fuori di posto, quando il territorio era occupato dallo straniero e il tiranno non ancora detronizzato : vedute che costituivano una restrizione pratica al suo repubblicanesimo teoretico e che lo prepararono a accettare il primato di Vittorio Emanuele con quei completo obblio di se stesso, con quella fedeltà e devozione che furono fattori eminenti nella creazione dell'Italia. Ma la sua proposta del 2 giugno 1 849 che lo facessero Dittatore, se presentava vantaggi militari, implicava anche pericoli politici, perché significava rimuovere il Mazzini a favore del suo rivale, una cosa che avrebbe sollevato molto entusiasmo ma anche seminato urti e divisioni.

Garibaldi non fu fatto Dittatore e nemmeno Comandante in Capo al posto del Roselli ; ma gli fu affidata la difesa della riva destra, e il nuovo attacco su Roma doveva essere diretto appunto su quella parte. Prima però che Garibaldi assumesse il comando in quel quartiere, la sera del 2 giugno, un sabato, il Roselli fece una visita all'avamposto di Villa Pamfili affidato al più che insufficiente numero di 400 uomini, per dire che non vi era bisogno di vigilanza poiché i francesi avevano promesso di non attaccare fino al lunedì mattina. Così la chiave della capitale e perciò resistenza stessa dello Stato restavan affidati alla buona fede di un nemico la cui condotta dal primo momento del suo sbarco era stata tortuosa e ambigua, e il Roselli si rendeva colpevole di un errore madornale. Se condanniamo la mala fede dell'Oudinot, dobbiamo giudicare altrettanto severamente la stoltezza del suo antagonista. Anche se la lettera del Generale francese avesse contenuto la promessa più esplicita di protrarre al lunedì ogni genere d'operazione, quella posizione vitale avrebbe dovuto esser stata tenuta giorno e notte da parecchie migliaia di uomini.

Garibaldi aveva capito meglio che il Comandante in Capo, l'immensa importanza di quella posizione, che per la sua altezza e la sua prossimità era la chiave del Gianicolo e perciò di Roma.

Dopo la sua vittoria del 30 aprile nella Villa Pamfili, aveva fatto la proposta di fortificarla ma non aveva avuto l'autorirà necessaria a mandare ad effetto il suo piano; il Roselli che ne aveva il potere, non aveva avuto l'avvisatezza d'intraprendere niente del genere in quell'intervallo di parecchie settimane. Se non si fosse sentito troppo male per andar subito a assumere il suo nuovo comando della riva destra quel sabato sera, il 2 giugno, Garibaldi si sarebbe probabilmente adoperato a rinforzare la Guardia nei giardini Pamfili ; costretto invece dalla vecchia ferita del 30 aprile e dalle ammaccature e dalle fatiche della campagna di Velletri a rimanersene a casa, rivesti temporaneamente del comando il Galletti. Tutti quelli che si coricarono in Roma quella notte avevan appreso dal Governo che l'Oudinot aveva promesso di non attaccare fino al lunedì, e nessuno ebbe il sospetto che prima dello spuntar del giorno la chiave della città sarebbe stata loro involata.

Il Vaillant, il bravo Generale Ingegnere, che come l'Oudinot aveva servito e si era distinto sotto il gran Napoleone, era stato mandato dal nuovo Presidente perché consigliasse e al bisogno soppiantasse il Generale in Capo. Ne la sua scelta avrebbe potuto essere migliore. I due vecchi soldati, a quanto sembra, lavorarono in perfetta armonia. Benché avessero gettato un ponte sul Tevere e occupata la basilica di San Paolo fuori le mura, decisero di non passare il fiume con il grosso delle forze, ma di concentrare le operazioni principali alla presa del Gianicolo. Trasportandosi sulla sponda sinistra avrebbero potuto facilmente far breccia nelle antiche mura imperiali, come fecero poi gl'italiani nel 1870, ma essi dovevano prendere in considerazione l'ostilità del popolo di Roma. Sapevano bene che se fossero entrati all'est, dalla parte bassa della Campagna, si sarebbero trovati alle strette non appena dentro la città; il popolo sarebbe accorso sulle barricate che aveva apprestate e la zuffa nelle strade si sarebbe prolungata per giorni e giorni. Quanta resistenza potessero offrire i cittadini contro le truppe regolari in questo genere di scontri, era stato dimostrato un anno prima a Milano e a Messina; ma dato anche che la vittoria fosse stata certa, avrebbe potuto costare la conflagrazione della Città Eterna, e i francesi con il loro culto per l'arte, potevan adeguatamente valutare e temere lo scandalo di un trionfo proclamato sulle rovine cruenti di Roma. Consapevoli che tutti, liberali e reazionari indistintamente, mettevano in dubbio il loro diritto d'intervento, s'imposero il miglior contegno possibile, e se gettarono molte bombe nelle strade, mostrarono anche d'aver cura di non danneggiare i monumenti oltre il necessario.

Considerazioni d'ordine militare e politico dunque concorrevano a dirigere i loro sforzi verso il Gianicolo ; per battere in breccia le mura papali sulla riva destra, ci voleva forse del tempo, ma una volta apertasi la via alla terrazza di San Pietro in Montorio, avrebbero avuto Roma ai loro piedi, alla mercé delle loro batterie, senz'altra alternativa che arrendersi rinunciando a ogni resistenza. Perciò il Vaillant decise di impadronirsi dei bastioni vicini alla Porta San Pancrazio; fatto savio dall'esperienza del 30 aprile, sapeva di dover fare un approccio formale costruendo trincee e appostando batterie da breccia secondo i metodi scientifici dell'arte d'assedio in cui era maestro. Ma vide allo stesso tempo esser inutile scalzare una sola zolla, finche i romani occupavano le alture delle Ville Pamfili e Corsini, — superba posizione da cui le artiglierie potevan spazzar la campagna circostante, piazza d'armi in cui la fanteria poteva esser chiamata in salvo a raccolta, e preparar sortite sul fianco e sulla retroguardia di qualsiasi trincea nemica. Una volta invece che i francesi avessero preso possesso della Villa Corsini dominante dal suo poggetto la porta San Pancrazio, sarebbe stato impossibile che le truppe italiane facessero delle sortite da Roma sulle loro fortificazioni se non sotto il fuoco mortale di batterie situate più in alto e al coperto, a circa quattrocento passi dallo sbocco troppo stretto della porta stessa.

Così dunque nelle condizioni normali, essendo della massima importanza che i francesi prendessero le due Ville Pamfili e Corsini, la resistenza principale dell'assedio avrebbe dovuto accentrarsi intorno ai muraglioni che chiudono i boschi e i giardini delle Ville in un solo e vasto recinto. Ma grazie alla lettera ambigua deirOudinot e alla sicurezza fuori di posto del Roselli, gli assedianti si impadronirono di questa piazza forte quasi senza colpo ferire; e la difesa di Roma fu in conseguenza trasformata in un attacco svoltosi, come vedremo, sotto le condizioni più svantaggiose.

Quelle posizioni vitali furono catturate nelle ore piccine della domenica mattina, 3 giugno. Una colonna comandata dal Generale Mollière si avanzò silenziosamente nell'oscurità per la strada detta vicolo della Nocetta che fiancheggia la Villa Pamfili al sud, e cominciò i preparativi per far saltare in aria il muro di cinta.

Alle 3 ant. o poco prima, alcune sentinelle italiane sentendo il rumore delle pale dei zappatori, scaricarono i loro moschetti. Allora, rotto ogni indugio, messa la polvere nel buco, e fatta l'esplosione, la fanteria francese si riversò sulle macerie, e ai primi albori crepuscolari si sparse in onde umane per i boschi che occupano il fianco sud della Villa. Nel frattempo il Generale Levaillant con un'altra divisione s'inoltrava dall'ovest, dove aveva trovato niente meno che un cancello aperto. Anzi, i 400 italiani che bivaccavano nel vasto recinto per cui una guarnigione di parecchie migliaia sarebbe appena bastata, dormivano serenamente, confidando nella promessa di non attaccare fino al lunedì, fatta dairOudinot e rammentata loro dal Roselli stesso nella sua balordaggine, meno di dodici ore prima. Vi erano bensì qua e là delle sentinelle all'erta cosi che la resistenza cominciò presto in vari punti, specialmente nella piccola Cappella dei Pamfìli : ma nella villa stessa e nei circostanti giardini e boschetti di quercie sempreverdi, dove il 30 aprile Garibaldi aveva mutato il destino della battaglia, i 400 italiani furono circondati e sopraffatti dal numero superiore.

Metà furon sorpresi e fatti prigionieri nell'edifìcio stesso, molti saltaron giù dalle finestre e 200 in tutto riuscirono a scappare al Convento di San Pancrazio e alla Villa Corsini, anch'essa dentro il recinto Pamfìli ma più vicina a Roma di circa cinque o seicento metri.

I fuggiaschi furono inseguiti alle calcagna da un battaglione del Levaillant, ma aiutati dalla forte resistenza organizzata dal prode colonnello Pietramellara nella Villa Corsini, e fatti più forti di numero dalle truppe del Galletti accorrenti dalla Porta San Pancrazio, gl'italiani poterono tener saldo. L'alba si faceva già grigiastra quando il battaglione francese che si era spinto solo nella Villa Corsini, dovette indietreggiare fino alla Villa Pamfili dove si unì al resto delle forze del Levaillant e alla brigata del Mollière ora sulla fronte. Ritornati alla carica, i reggimenti francesi presero il convento di San Pancrazio poi, con l'aiuto dell'artiglieria fecero impeto sulla Villa Corsini e, impadronitisene dopo fiero contrasto, incalzarono gli italiani giù per la china respingendoli nel Vascello. La Villa Corsini, la chiave di Roma, era nelle mani del nemico.

I minuti erano preziosi, ma le disposizioni prese dal Roselli e dalle autorità civili per I'acquartieramento dei soldati causarono la perdita di due ore. Se i Garibaldini e i Bersaglieri fossero stati accampati sul Gianicolo avrebbero potuto accorrere come le truppe del Galletti e probabilmente riprendere non solo la Villa Corsini ma anche la Pamfili prima che il grosso delle forze francesi si fosse installato nel loro recinto. Ma i difensori principali della città erano alloggiati sull'altra sponda del fiume, a considerevole distanza dal campo d'azione; peggio ancora, gli officiali avevano preso quartiere in case private, divisi dai loro reggimenti. La Legione di Garibaldi era nel convento di san Silvestro; parecchi degli ufficiali alloggiavano abbastanza lontano; ma Garibaldi e il Masina stavano più vicino nelle strade lunghe e strette che sboccano in Piazza di Spagna. Il Generale malato aveva passato la notte in un modesto appartamento in via delle Carrozze n. 9, assistito dal suo amico Ripari, il chirurgo delle camicie rosse che, buscatosi per simile misfatto una mezza dozzina d'anni di prigione papale, divenne poi il dottore dei Mille in Sicilia, improvvisamente, alle tre del mattino, Daverio, il capo dello Stato Maggiore di Garibaldi, irruppe nella stanza di lui gridando che avevano dato l'attacco a Roma. Mentre Garibaldi balzava dal letto, si cominciava già a udire il rimbombo lontano delle cannonate. Ripari fu mandato nella via Condotti lì vicina, a svegliare il Masina e in pochi minuti i tre amici — il malato destinato a vivere e i sani che dovevano presto morire — correvano a raggiungere i loro soldati, mentre le ombre notturne si dileguavano nella quiete delle lunghe e deserte strade di Roma, e sui loro visi biancheggiava l'alba, — l'ultima per il Masina e il Daverio.

Questi due che contavano l'uno trentatre, l'altro trentaquattro anni avevan visto molto più albe che non tutte le altre inclite vittime predestinate al sacrificio di quel giorno. L'aver toccato i trenta, era per i capi della difesa di Roma un vanto di maturità : lo stesso Manara, il capitano veterano dei Bersaglieri lombardi, portava il gran fardello di ventiquattro anni; Enrico Dandolo, il famoso capitano di una sua compagnia, ne aveva ventuno; colui che esercitava la miglior influenza nel nobile consorzio de' suo corpo, il Morosmi, ne aveva diciassette. Lo stesso nella Legione di Garibaldi: Gaetano Bonnet di Comacchio aveva ventitre anni, e il ben amato Mameli di Genova, il poeta dell'inno di guerra dell'Italia, ventuno. Tutti costoro predestinati al massacro, si cingevano allora le spade al fioco chiarore dell'alba e con essi i loro fratelli e compagni d'arme più fortunati, destinati a vivere e a vedere spuntar il gran giorno dell'Italia e a guidarla nelle armi e nell'arte, il Bixio, il Medici e Nino Costa. Questi gli spiriti che con Garibaldi a duce, presiedettero a quella giornata di fuoco; tutti per lo più di buona famiglia, tutti forti d'ingegno e di fibra morale, stretti fra loro da vincoli di tenerissimo affetto, già riconosciuti come capi in una terra dove il ragazzo si matura presto in uomo, in un anno in cui ogni ardimento giovanile era in rialzo, ogni cautelata ritrosia, in ribasso.

(*) L'idealismo repubblicano di quei giovani figli di patrizi e di ricchi borghesi, l'eroismo della loro tempra e la natura omerica — almeno in ispirito — del combattimento del 3 giugno, che tanta impronta lasciò nell'immaginazione degl'italiani e in cui tanti di essi perdettero la vita, erano, a parer mio, dovuti non poco al genere di educazione che essi avevano ricevuta. Questo punto è reso mirabilmente evidente dal seguente ragguaglio sull'educaizione di uno dei migliori — Nino Costa — un romano puro sangue, sebbene i settentrionali a fianco dei quali egli si battè si trovassero presso a poco nello stesso caso : « In quei giorni e specialmente in Roma, l'istruzione era tutta nelle mani del clero, così all'età di sei anni il Costa fu affidato al suo primo precettore, un prete di nome don Pasquale ... un idealista e un repubblicano, infiammato d'entusiasmo per le gesta e gli eroi dell'antichità classica, che coltivò nel suo scolaro le innate tendenze all'idealismo. L'istruzione d'allora era puramente classica e le vite di Plutarco, le storie di Tito Livio e le narraizioni bibliche formarono la base dei primi studi del Costa : non di rado maestro e scolaro si commossero fino alle lacrime leggendo le eroiche gesta dei gran morti .... Allora gli uomini si nutrivano di dottrina classica, le storie di Livio, di Tacito e di Plutarco erano per loro realtà della vita, e gli eroi antichi sembravano vagheggiarli plasmandoli sul loro proprio modello » . E per analogia, anche alla scuola di Montefiascone s'instillò al Costa: « lo stesso spirito d'entusiasmo repubblicano che aveva caratterizzato il primo insegnamento di don Pasquale. Così nelle scuole clericali e nei seminari d'allora fu tirata su la generazione che doveva dare il colpo mortale al potere temporale del Papa nel 1848, e proclamare il trionfo del libero pensiero. L'istruzione compartita dai preti era tutta, per dirla con il Costa, di un'età morta ; i giovani vivevano nel passato, ma la morte e i morti spirano sempre dignità, e per essi i semi di un nobile idealismo, di un ardente amor di patria, di quel patriottismo che gli antichi pregiavano come la massima virtù, e sopra tutto di una fede incrollabile nei destini e nella grandezza di Roma e di una brama ardente di vederla ritornare alla gloria passata, venivano gettati nel cuore e nel cervello della gioventù che doveva offrire così larga messe d'eroismo nel 1848 e 1849». Costa, 4-5, 9. Era sopra menti così preparate in fanciullezza che s* innestava, nella prima giovinezza, l'insegnamento non meno ideale del Mazzini, sulla democrazia e sull'unità dell'Italia.

Prima di tutto Garibaldi radunò le sue truppe nella gran piazza davanti a san Pietro e al Vaticano; poi, avviatosi verso Porta Cavalleggieri, si fece a considerare rapidamente se fosse possibile fare una sortita da quella porta per sorprendere i francesi di fianco. Ma rendendosi conto che la Villa Pamfìli era ormai saldamente occupata dall'esercito nemico e presentava un muro fortificato a ogni attacco dal nord, non solo, ma che se egli avesse sciupato le sue forze a tentar di entrare nella Villa per la via Aurelia Antica, i francesi avrebbero potuto intanto aprirsi il passaggio attraverso la Porta San Pancrazio o per lo meno catturare il Vascello, si diresse senza esitazione verso il Gianicolo per la via di San Pietro in Montorio.

Ed ecco che le campane cominciano a suonare a stormo e che il rullo dei tamburi singhiozzanti il loro motivo d'allarme, chiama uomini e donne sulle porte e alle finestre di tutte le vie e viuzze della città. Da per tutto è un correre di ordinanze e di ufficiali a cavallo, a piedi, in legno, in cerca dei loro reggimenti, di compagnie di soldati o di cittadini armati alla rinfusa, aprentesi il passo su per i ponti, in mezzo alla calca plaudente ; un convergere a uno a uno, o in gruppi, da tutte le direzioni verso il piede del Gianicolo, dalla cui vetta diffondesi sulla città il sordo rimbombo della zuffa invisibile, calamita potente per gli ardimentosi. Vi è in Trastevere una viuzza ombrosa chiamata via di Porta San Pancrazio(1), che conduce diritto da quel quartiere in basso alla Porta in alto, inerpicandosi su per il colle, ripida, precipitosa, rotta qua e là da scalini, stretta fra due file di vecchi palazzi e di giardini pensili su muri in sfacelo. Questa era la più corta, e per le ultime centinaia di metri sotto alla Villa Savorelli, anche l'unica via che conducesse alla Porta. Per tutto il giugno, essa fu l'arteria principale che alimentò la battaglia sul Gianicolo; in quella prima domenica così ricca di sorprese, formicolò dall'alba al tramonto di soldati e di Garibaldini accorrenti alla lotta su in alto e di feriti trascinantisi carponi giù al basso. Garibaldi e la sua Legione arrivarono alla Porta San Pancrazio verso le 5 e mezzo (2).

Mentre spronava il cavallo sotto l'arco, egli si vide apparire davanti la Villa Corsini coronante il suo poggetto a circa 400 passi di distanza, là dove oggi sorge un arco in memoria. Se quella casa non era ripresa, la caduta della città non era più che una questione di tempo ; egli lo sapeva. Bisognava averla a qualunque prezzo, e il prezzo stava per essere durissimo forse. Una fortezza scaltramente imaginata per resistere a un attacco dalla parte di Roma, non avrebbe potuto presentare maggiori vantaggi di struttura, di mura e situazione, che quella Villa tutta fregi dei Corsini. Spiccava nel cielo, alta sui vigneti e sulle ville circostanti, offrendo a tutti i venti i muri massicci della sua struttura quadrata per cui s'ebbe spesso il nome di « Casa dei Quattro Venti » . Aveva quattro piani e una balaustrata ornamentale torno torno la cornice ; i due primi piani non presentavano finestre sul fianco verso Roma, ma un muro cieco e una scalinata esterna che conduceva al balcone del secondo piano, sul quale perciò tutte le truppe che tentavano l'assalto alla casa erano costrette a salire. E anche i fianchi ne erano ben protetti, perché non solo i giardini erano fitti di statue, alberi e cespugli, ma dal piede della scalinata partiva d'ambo i lati un muricciolo alto tre palmi circa, sul quale erano allineati degli aranci in grossi vasi, vero asilo per i soldati che tenevano la linea della collina (1) ; il muricciolo poi andava a finire di qua e di là neir alta cinta comune alle due ville Pamfìli e Corsini, che elevandosi sulla via Aurelia Antica da una parte e sul vicolo della Nocetta dall'altra, proteggeva ampiamente il dietro delle ville sui due fianchi (2).

(1) Hoffstetter, 119. L'illustrazione qui annessa mostra il muricciolo ai due lati della casa e l'Hoffstetter descrive il muro e i vasi d'aranci. (Vedi Dandolo, 231, per le statue).

(2) Dall'illustrazione suddetta risulterebbe erroneamente che il muricciolo finiva in niente, mentre invece si fondeva con il muro di cinta da tutte e due le parti ; anche non mostra la continuazione della cinta all'ovest, ma soltanto l'angolo d'incontro dei due muri est e ovest, al cancello d'ingresso.

Davanti a questa fortezza estetica il suolo scendeva in pendenza come uno spaldo percorso nel mezzo da un viale carrozzabile che, fiancheggiato da due siepi di bosso alte cinque piedi circa, andava dalla gradinata al cancello (1) ; alla fine del viale, oltre il cancello, tutte le strade s'incrociavano davanti al Vascello e i muri della cinta Pamfili-Corsini s'incontravano ad angolo acuto.

(1) Hoffstetter, 113. Vedi illustrazione a pag. 202. Nell'illustrazione a pag. 195, le due siepi sembrano muri, ma è un errore. L'illustrazione è più buona per l'interno delle mura che per l'esterno, sebbene la villa Corsini stessa vi sia ben rappresentata.

Per tal modo lo spiazzo murato davanti alla Villa Corsini aveva la forma d'un triangolo al cui apice precisamente stava l'unico cancello attraverso il quale i drappelli degli assalitori dovevan a ogni costo sfilare se intendevano arrivare alla Villa. Gl'italiani mandati all'attacco dovevan esser stacciati per quella strettoia come la sabbia di una clessidra. Era un angolo mortale su cui si concentrava tutto il fuoco dei difensori stanziati nella casa e lungo il muricciolo degli aranci. Presa la Villa poi, gl'italiani non potevano avere gli stessi vantaggi per tenerla, perché i francesi, se momentaneamente respinti, avevano però sempre una linea di fuoco più estesa nella direzione della Villa Pamfili, dove la tenuta si allargava invece di restringersi come verso Roma. Là dietro nei giardini e nei boschi di pini, in una depressione del suolo che offriva asilo sicurissimo contro il fuoco dei bastioni di Roma, le loro riserve stavano ammassate a migliaia, pronte a fornire nuovi difensori alla Villa Corsini o a riconquistarla, secondo il bisogno.

La strada per la quale gl'italiani dovevano avanzarsi dalla Porta San Pancrazio prima di arrivare a quell'angolo della morte, era intieramente esposta al fuoco nemico. Alla sinistra confinava con campi di grano e vigne allora non ancora murati; alla sua destra sorgeva il Vascello, che doveva il suo nome a un'imaginaria somiglianza con la forma di una nave. Anche questa era una villa ornamentale dell'aristocrazia romana, rivaleggiante con la Corsini in magnificenza benché per esser situata al piede del poggio, non fosse così prominente come quella nel panorama. Il solo vantaggio degli italiani in quel conflitto ineguale, era che il Vascello con il suo giardino murato e le due casette a destra e a sinistra del vicolo della Nocetta, facevano in certo modo ufficio di piazza d'armi da cui attaccare la Villa Corsini : ma era un vantaggio ben limitato perchè il giardino del Vascello era spazzato dal fuoco delle finestre dell'alta Villa Valentini che i francesi avevano già occupata. In verità agl'italiani non rimaneva che alimentare le loro file dalla Porta San Pancrazio percorrendo il tratto di strada scoperta, e fare la maggior parte delle cariche contro la Villa Corsini prendendo le mosse dalle mura della città.

Quando arrivò Garibaldi, i francesi avevano il possesso sicuro del poggiolo Corsini e gl'italiani del Galletti il possesso malsicuro del Vascello ai piedi della posizione francese. Una batteria era stazionata sul bastione della casa Merluzzo alla sinistra della Porta San Pancrazio. Dietro quel bastione, al di qua delle mura, vi era allora come adesso (1906), un vasto terreno incolto; quivi si raccoglievano i reggimenti di mano in mano che venivan su ansimanti dalla città, per esserne poi lanciati in distaccamenti, ahimè troppo piccoli, a precipitarsi sotto l'arco fatale della Porta San Pancrazio e su per la strada fino alla Villa Corsini. Quivi, dietro le fortificazioni, la scena illuminata dal sole brillante di un bel mattino che si cambiò presto in una giornata rovente e senza traccia di nuvole, era animata, anzi gaia. Degli spettatori o curiosi o inteneriti, avevan fatto capannello intorno al casotto del dazio, pronti a acclamare i vari campioni che arrivavano a cavallo e sparivano sotto l'arco, e a salutare i feriti che tornavano portati dai loro commilitoni su barelle, o in cariole a mano, o su fascie a spalla. Sul bastione a destra, la banda suonava la «Marsigliese» a perdifiato perchè i francesi udendola fra il ruggito dei cannoni si sentissero punti dall'ironia ; sull'orlo del bastione della casa Merluzzo, in mezzo al fuoco delle batterie romane e minacciato dalle palle fischianti, un artista olandese, profittando dell'incorreggibile bonomia del soldato italiano, spiava d'in fra i sacchi di sabbia la scena storica che si svolgeva di là dalle mura.

Vedeva di faccia al sommo del colle, il balcone della Villa Corsini gremito di soldati francesi; vedeva le canne dei loro cannoni gettar lampi al sole quando li puntavano per far fuoco, e giù fra gli alberi dietro la Villa, la batteria ivi collocata. Più presso, nella strada sotto a lui, Garibaldi sul suo cavallo bianco in mezzo al suo Stato Maggiore rapidamente decrescente, lanciava una dopo l'altra le divisioni della sua Legione contro il cancello della Villa Corsini; donde sbucando per lo stretto varco fuori nell'angolo della morte, esse salivano di corsa il pendio, rasentando le siepi di bosso sotto il fuoco delle finestre superiori e del muricciolo degli aranci, finche i non caduti arrivavano al piede della scalinata. Allora i superstiti, se in numero bastante, davan l'assalto alla doppia scalinata, guadagnavano il balcone, attaccavano i francesi alla baionetta respingendoli nel salotto interno, e rimanevano per alcuni minuti padroni della Villa. Spesso la carica falliva a mezza strada per mera insufficienza di numero; ma la Villa fu presa parecchie volte e tenuta per breve intervallo contro il fuoco concentrato di un intero esercito appostato nei boschi Pamfili. Una volta i Garibaldini ammucchiarono i cadaveri dei compagni nella loggia aperta sul fianco ovest della Villa, e barricativisi dietro, respinsero di lì gli attacchi dei francesi, primo fra loro il pittore Costa.

I francesi avevano forze enormi e Garibaldi aveva ancora a malapena 3000 uomini con cui allineare le mura della città ed eseguire gli attacchi : — i suoi propri Legionari con pochi altri corpi di volontari, gli Emigranti, gli Studenti, i Finanzieri, il residuo del battaglione Pietramellara, e dalle sette in poi, il reggimento del Medici e poche truppe di linea. I Bersaglieri lombardi e il reggimento Unione non arrivarono che più tardi. Ma pare che egli sminuzzasse anche le forze che aveva a sua disposizione, in distaccamenti troppo piccoli ; fosse o non fosse sua la colpa, non vi erano mai sotto mano rinforzi sufficienti a sostegno dei valorosi che di tanto in tanto s impadronivano della Villa. Alle 7,30 ant. egli annunziò in un bollettino che la Villa era in mano sua; ma non passò molto e fu perduta di nuovo.

In quelle prime ore e nell'urto del primo cozzo, la Legione vide i suoi migliori soldati e ufficiali spazzati via con una rapidità fulminea. Fra i morti fu il Daverio, il capo dello Stato Maggiore di Garibaldi, l'amico che lo aveva svegliato quella mattina e di cui egli disse poi come a lode suprema, ch'era moralmente e fisicamente il ritratto dell'Anzani. Anche il Masina si buscò a corto andare la sua prima ferita ; gli astanti notarono che il sangue gli scorreva abbondantemente dal braccio sinistro, ma egli rifiutò di ricoverarsi nella città all'ospedale militare di San Pietro in Montorio e non fu che alla reiterate ingiunzioni di Garibaldi : « Devi andare, te lo comando », che egli, fatto il saluto, disparve sotto la Porta San Pancrazio. Un'ora più tardi entusiastiche grida lo salutavano di ritorno a cavallo, con il braccio al collo, infaticabile nello sfidare la morte (').

Nino Bixio ch'era destinato a rappresentare una parte cosi grande nella storia futura del suo paese e del suo duce, ricevette una ferita mortale in uno di quegli attacchi mal rinforzati. Lanciato il suo cavallo al galoppo alla testa dei Legionari su per la scalinata esterna e fatta una carica nella sala al sommo di essa, lui e il suo cavallo erano stati stramazzati a terra da una pioggia di palle nel punto in cui emergevano sull'opposto balcone prospiciente i giardini Pamfili. Al vederlo ritornare sulla barella, Garibaldi gli domandò ansioso : « Dove siete colpito Capitano ? ». — « Una palla nel fianco sinistro, ma non sarà niente » rispose. Alla Porta la lunga processione dei feriti s'imbattè nei Bersaglieri del Manara che raggiungevano l'altezza del Gianicolo al suono delle loro cornette, impazienti di mutar le sorti della battaglia, e il giovane Bixio « ricambiò con cordialità e allegria i loro evviva e i loro saluti ».

I Bersaglieri che avevan cinto le armi al primo allarme, erano rimasti allineati nel Foro, frementi al suono della lontana battaglia ma trattenuti sul posto da un malaugurato intervento del Roselli che come Generalissimo aveva contramandato l'ordine dato da Garibaldi come Capo di Divisione al Manara di movere immediatamente in suo aiuto. Se i Bersaglieri e i Legionari fossero arrivati freschi sulla scena fra le cinque e le sei, avrebbero forse compiuto grandi cose, piuttosto che subirle ; invece quando i « cappelli tondi » arrivarono verso le otto, la Corsini era stata di nuovo ceduta e i francesi scendevano rapidamente il viale di bosso per dare l'attacco al Vascello il cui giardino e le cui finestre eran spazzati dal fuoco della Villa Corsini non solo, ma anche dei piani superiori della Valentini prospicienti su di quelli. Già da qualche tempo i tiratori francesi avanzatisi per i campi di grano alla volta delle mura, avevano cominciato a tirar davvicino sui bastioni della Casa Merluzzo da cui la batteria romana rispondeva con salve di mitraglia sotto cui le spighe si curvavano e ondeggiavano come per vento. Così incalzati dal fuoco concentrato delle posizioni francesi e dall'avanzarsi di grossi corpi di truppe regolari, i Legionari che avevan subite perdite immense e d'uomini e d'ufficiali, tenevan saldo al loro posto soltanto perché ispirati dalla presenza di Garibaldi. Gli ufficiali dei Bersaglieri che accorsero dalla Porta San Pancrazio a annunciargli l'arrivo del loro reggimento, lo trovarono dove più ferveva la mischia con il suo bianco mantello crivellato dalle palle, ma intatto come per miracolo, diffondendo calma e coraggio ovunque apparisse .

Ventum erat ad Marios. Era venuto il turno dei Bersaglieri. Il loro reggimento contava 900 uomini, ed era, eccettuata forse la Legione, il corpo più valoroso di cui Garibaldi disponesse. Informato del loro arrivo, egli mandò subito l'ordine che una compagnia occupasse la casa Giacometti, edificio di dimensioni piccole ma di solida costruzione dalle cui finestre si poteva tirare non solo sul vicolo della Nocetta, ma per di sopra la cinta, nei giardini Corsini e sulle finestre della Villa. Intralciato per tal modo l'avanzarsi dei francesi e data una protezione al fianco degli assalitori, egli ordinò la sortita di altri Bersaglieri dalla Porta San Pancrazio, e impartì al Manara il comando di occupare la Villa Corsini. La via all'assalto avrebbe dovuto esser preparata da un'ora e più di cannoneggiamento dal bastione, e di fucilate dalle case sul giardino : ma Garibaldi non dette direzioni in proposito e il Manara nella sua ansietà di spiegare il valore dei suoi, alcuni dei quali eran stati presi da momentaneo timor panico sotto gli occhi del Generale stesso, distaccò sull'attimo due compagnie contro la Villa.

Al grido stentoreo di « Avanti! Avanti » tre o quattrocento di quella bella gioventù lombarda, guidati dal Manara stesso, da Enrico Dandolo e dallo svizzero Hoffstetter, si riversarono sotto l'infuriar delle palle per lo stretto ingresso che non dava adito a più di cinque in fila ; dilagandosi poi a destra e a sinistra delle siepi di bosso, si slanciarono su per la china, con le piume del cappello svolazzanti al vento. Ma i francesi, adesso assiepati numerosi nella villa e lungo il muricciolo degli aranci e non esposti a un fuoco considerevole, menarono tal strage degli italiani che a dieci passi dalla meta gli assalitori dovettero far sosta: non indietreggiarono però; messo il ginocchio a terra sullo spiazzo scoperto, aprirono il fuoco sui francesi trincerati mentre gli ufficiali ritti dietro loro si offrivano anch'essi al massacro. Fra gli altri, Enrico Dandolo cadde morto, trapassato da una palla (1).

Per ben dieci minuti, tanti sembrarono all'Hoffstetter, il Manara assistette impassibile all'eccidio dei suoi, poi sonò la ritirata ; ma non uno aveva dato un passo indietro prima che la cornetta echeggiasse. Allora cominciarono a scender la china, giù fino all'angolo della morte e al cancello d'ingresso.

(1) Hoffstetter, 1 1 9. Suo fratello Emilio taccia i francesi di tradimento riguardo alla morte di suo fratello, e l'accusa è di solito ripetuta nella storia italiana. Emilio non ne fu testimonio oculare, e la sua storia non si attaglia al racconto dell'Hoffstetter. Queste accuse erano facili e reciproche allora fra gl'italiani e i francesi. « Ma (dice l'Hoffstetter) quando quei superstiti inermi si precipitarono fuori del giardino, la morte cominciò a mieterli a piene mani. Sulle prime vedendoli cader bocconi a decine, credetti che nella loro precipitazione avessero inciampato nelle radici delle viti; ma la immobilità dei loro corpi mi fece accorto del vero. Gli altri sopravvenendo a furia, chinavansi per un vecchio impulso a trascinar con se i caduti, a raccoglierne i corpi, ma la mano stesa a quell'ultimo ufficio si ritirava rapida come lampo a premere la propria ferita mortale. Altri che eran già al sicuro nella casa o sotto l'ingresso della villa, lanciavansi fuori a corsa un'altra volta per soccorrere un ferito ancor vivo, a pochi passi di là ; un tremito, uno spasmodico movimento delle membra e anch'essi giacevano presso l'amico. Era la prima fiera batosta toccata ai nostri Bersaglieri, così allegri, così bravi, così fedeli e instancabili ! ».

La catastrofe riuscì fatale anche alla più vaga speranza di vittoria che gl'italiani avessero accarezzata per quel giorno; le prime forze di quel valoroso reggimento eran state usate in condizioni tali che avevano reso il successo impossibile. A questo punto finalmente Garibaldi fece concentrare tutto il fuoco dell'artiglieria delle mura sulla facciata della Villa Corsini da cui a breve andare cominciarono a staccarsi larghi pezzi di macerie, mentre i Bersaglieri appostati nella casa Giacometti e nell'altra casa all'angolo della morte, ne tempestavano le finestre con un fuoco incessante. Ne risultò, come vedremo, che la villa fu presa ancora una volta prima che la giornata finisse sebbene non potesse esser tenuta. Intanto l'arrivo dei Bersaglieri aveva per lo meno posto argine al progresso del nemico e reso possibile l'occupare saldamente il Vascello e le altre case del poggiolo Corsini ('). A questo punto Garibaldi si rese colpevole di un atto insano la cui gloria ricade su un altro e tutto il biasimo su lui. Rientrando da porta san Pancrazio a cavallo, egli trovò dietro le mura alcune riserve dei Bersaglieri affidate al comando di Emilio Dandolo, che aveva allora raccolta la voce della morte di suo fratello, da cui si era separato in quello stesso posto meno di un'ora avanti. Ciò che seguì non può esser narrato che con le sue stesse parole :

« Era la prima volta che l'idea d'una morte così tremenda mi si affacciava netta e sicura alla mente atterrita. Un noncurante fatalismo ci faceva credere impossibile che uno di noi che ci amavamo tanto avesse a lasciare gli altri: « o tutti o nessuno », ecco l'espressione delle nostre inconcepibili speranze. Ma in quel momento in cui per la vista di tanto sangue e di tante vite perdute mi si mostrava per la prima volta la guerra a sangue freddo in tutta la sua orribile realtà, l'idea di sopravvivere a chi rendevami cara e lieta la vita, mi fece rabbrividire. Io pensava: Forse mio fratello spira a dieci passi da me; ed io non posso baciarlo prima che muoia! Sarebbe stato male allontanarmi dai miei soldati già commossi a tanti lagrimevoli quadri. Percorreva in su e in giù la fronte della compagnia, mordendo disperatamente la canna d'una pistola per impedire alle lagrime che mi bollivano dentro di sgorgar troppo forti ad accrescere lo sgomento dei miei.» In quel momento d'ineffabile patimento, si avvicinò Garibaldi dicendo: « Avrei bisogno di venti uomini risoluti e di un ufficiale per una diffìcile impresa ». lo mi slanciai fuori e mi presentai, lieto di uscire finalmente da quello stato, e di correre a soffocar nei pericoli l'angoscia che mi rendeva quasi pazzo. « Andate — mi disse Garibaldi — con una ventina dei vostri più bravi, a prendere alla baionetta Villa Corsini » . Mio malgrado, io restai attonito. Con venti uomini correre all'attacco di un palazzo, che due compagnie nostre, che tutta la Legione Garibaldi, non avevano, dopo sforzi inauditi, saputo ancor conquistare!..

« Pochi colpi, e subito alla baionetta, » — mi disse Garibaldi. — « Stia tranquillo, generale, — gli risposi — mi hanno forse ucciso il fratello e farò bene ». Ciò detto, corsi innanzi....» Si apriva diritto davanti a me il lungo viale deserto che conduce alla villa, bersaglio, per chi voleva salirlo, al nemico appiattato nel giardino e dietro le finestre. Lo percorremmo alla corsa, non senza lasciarci addietro più di un caduto. Il piccolo gruppo si diradava. Arrivati fin quasi sotto il vestibolo, mi rivolsi per vedere quanti eravamo. Dodici soldati mi restavano, imperterriti, silenziosi, pronti a qualunque sforzo. Mi guardai intorno: eravamo soli. La mitraglia nostra ci fischiava nella schiena, la pioggia delle palle cadeva spaventosamente dalle socchiuse finestre. Che fare con dodici uomini in un palazzo occupato da qualche centinaio di francesi? Dovetti piegarmi a ciò che più numerose forze avevano già fatto: comandare il fuoco, e in ritirata. A mezza strada, io e S... fummo dalla medesima palla colpiti amendue nella coscia; ritornammo al Vascello in mezza dozzina, malconci, senza che il coraggio veramente strano di quei pochi fosse riuscito a null'altro che a mostrare ai francesi che anche gl'italiani sanno battersi temerariamente » (*).

Messo fuori d'azione dalla grave ferita alla coscia, l'eroe di questa carica straordinaria che non contava più di diciannove anni, si trascinò di qua e di là per quasi tutto il pomeriggio, cercando il fratello maggiore fra i morti e i feriti. Molti sapevano della morte d'Enrico ma nessuno osava confermargliela; finalmente egli arrivò alla casa Giacomelli allora l'avamposto italiano più importante dopo il Vascello, ora (1906) porta sui muri il soprannome del proprietario: Scarpone.

La casa, negletto ricordo di quella giornata calamitosa, sta ancora in piedi, isolata, alla sinistra della strada; sul dietro ha uno sterrato prospiciente i vigneti, dove i carrettieri si fermano a rinfrescarsi con un bicchiere di vino air ombra della pergola, prima di entrare in Roma; il bello e vecchio androne d'ingresso è tutto incrostato di pietre e iscrizioni antiche. All'arrivo di Emilio Dandolo, il Manara e l'Hoffstetter stavano dentro la casa, vicino al corpo di Enrico ; lo Svizzero si ritirò profondamente commosso; il Colonnello rimasto solo con Emilio gli prese la mano dicendo : « Non cercare più tuo fratello, è troppo tardi; io ti farò da fratello » . Il giovane, prostrato dalle ferite e dal dolore, cadde svenuto nelle braccia dell'amico che lo portò fuori della stanza . Per tutte le lunghe ore del gran caldo, la battaglia si passò in un ben nutrito fuoco d'artiglieria e di moschetti d'ambo le parti ; gl'italiani occupavano il Vascello e la casa Giacometti coadiuvati alle spalle dalle batterie delle mura, una delle quali, quella sul bastione settentrionale a destra della porta, tirava sulla villa Valentini, e l'altra alla sinistra, sotto la direzione del francese Laviron artista e repubblicano, continuava a smantellare la facciata della villa Corsini. Da questo Bastione Merluzzo, il Laviron e gli altri artisti suoi amici, seguendo con il telescopio l'effetto del loro fuoco, potevano vedere a ogni scarica i soldati francesi scaraventati qua e là sulle macerie o sospesi penzoloni per le mani quando il piancito crollava sotto a loro (').

Sul tardi il fuoco francese rallentò ; si operava il ritiro o lo scambio delle truppe, reso necessario dall'effetto disastroso del cannoneggiamento sulla villa. Garibaldi ne profittò per inviarvi un altro attacco; alla testa erano i quaranta lancieri del Masina in qualità di dragoni e armati di moschetti. Capitanata dal Generale Galletti e dal loro proprio Colonnello con il braccio al collo, la cavalleria si slanciò sotto l'arco e su per il declivio esposto al fuoco diradantesi del nemico, poi fra gli evviva frenetici degli italiani affollati sugli spaldi di Roma, seguì l'impeto dell'ultimo e audace galoppo del Masina, su per la scalinata della villa. Intanto la fanteria accorrente dal Vascello e dalle due case vicine seguiva alle calcagna, spronata dal Manara e da Garibaldi.

Con una carica alla baionetta sgombrarono gli ultimi francesi dal poggetto e si accinsero ad afforzarvisi mentre parte dei Bersaglieri accorrevano sulla destra, dietro al Galletti e ai suoi valorosi che eran già andati alla presa delle case presso la Valentini e l'Acquedotto .

Allora un altro fiotto umano si riversò dalla Porta di Roma . L'impeto del Masina sulla scalinata, la presa della Corsini, e l'avvicinarsi a gran passi della crisi finale della giornata, erano stati più forti che la disciplina, per gli spettatori affollati sui bastioni. Cittadini, artisti, cannonieri, fantaccini dei reggimenti sbaragliati, tutti in preda a un pazzo entusiasmo opposto e pure affine al panico, accorsero alla Porta San Pancrazio riversandosi sulla strada in una massa compatta e straripante. L'artista olandese Koelman più che correndo con i suoi piedi, trasportato dalla calca, riuscì a tenersi ritto e a farsi largo, con un braccio aggrappandosi a una Guardia Civica che non aveva mai visto prima, e con l'altro tenendo alto il fucile sopra le teste. Al cancello della Villa, mentre s'inoltravano calcando i corpi dei caduti, alcuni cavalli con la sella vuota corsero alla loro volta scendendo la china all'impazzata, interroriti dalle strida acute della folla ; i primi due o tre piegaron di fianco attraverso le siepi di bosso e si salvarono, ma quelli che venivan dietro si gettarono a capo fitto sulla testa della colonna e, trafitti dalle baionette, furono miseramente calpestati. Giunta finalmente alla Villa smantellata, sullo spiazzo coperto di corpi, armi e macerie annerite, quell'accozzaglia confusa si mescolò ai febbrili preparativi di difesa. Essendo impossibile appostare i tiratori nei piani superiori della Villa perchè l'edificio era stato devastato dalle fiamme e i pavimenti demoliti dai cannoni italiani, e le stesse batterie francesi li stavano allora bombardando dall'altra parte (vedi illustrazione), bisognava organizzare la difesa principale nel giardino di qua e di là della casa, e nel Convento di San Pancrazio occupato come avamposto . Le truppe sbandate che mostrarono molta buona volontà e prontezza, furon riordinate alla meglio e fatte sdraiare fra gli arbusti in attesa dell'approccio del nemico dai giardini Pamfili. Fra i pini che gettavano lunghe ombre nella luce vanente del giorno, si potevano veder i reggimenti del ben disciplinato esercito dell'Oudinot avanzarsi a uno a uno. Aspettando il loro fato così sdraiati in fila con gli altri, alcuni studenti scherzavano paragonandosi a balle di merce messe in mostra in una vendita all'asta. Per qualche tempo la difesa fu ben sostenuta e i francesi subirono gravi perdite ; ma sovvenuti come erano continuamente da forze fresche, si fecero più incalzanti, ripresero il Convento e alla fine si spinsero fin sulla cima del poggio : gli italiani allora senza cessare il fuoco, arretrarono sgombrando la Villa che se non imprendibile, risultava certo intenibile .

Garibaldi sul suo cavallo fu l'ultimo a varcare la porta protettrice del Vascello ; ne il suo viso, ne il suo contegno tradivano l'animo suo davanti al crollo finale delle sue speranze. Dietro a lui il Manara sbarrò la porta. Nella confusione il Masina era stato lasciato indietro. Non si può accertare in qual punto, — se sulla scalinata o nel giardino Corsini — e in qual momento, — se nell'attacco o nella ritirata, — egli sia caduto ; i ragguagli dei testimoni oculari discordano su questi dati, ma il suo corpo rimase là steso nel bel mezzo della salita, a sessanta passi dalla scalinata ch'egli aveva caricata tanto valorosamente. Per tutto quel giugno le palle dei fucili italiani dal Vascello e dei cannoni francesi dalla Corsini, fischiarono ogni giorno sulle sue ossa biancheggianti che furono rintracciate e sepolte soltanto dopo la resa di Roma. Capo della jeunesse dorée di Bologna era morto indossando l'uniforme dei volontari democratici. Nella memoria delle future generazioni del suo paese egli rimane l'impavido cavaliere che assalì al galoppo una scalinata marmorea spazzata dalle palle ; ma per Garibaldi e per i Bonnet di Comacchio e per molti altri egli era amico carissimo non meno che prode soldato .

Era già sull'imbrunire quando Garibaldi diresse un ultimo e vano attacco sulla ormai informe rovina in vetta al poggio, capitanando il Reggimento Unione (il nono delle truppe papali regolari) arrivato allora sulla scena, e gli indefessi superstiti della sua propria Legione e dei Bersaglieri ("). Fu allora che cadde il Mameli, il giovane poeta genovese il cui inno di guerra scritto a vent'anni, era sulle labbra di tutti i combattenti ; era il figlio della donna che il Mazzini aveva amata nella giovinezza e a cui Garibaldi così scrisse più tardi quanto ricordava di lui : « Era verso sera di quel giorno fatale, quando Mameli, ch'io aveva trattenuto al mio fianco la maggior parte di quel giorno, siccome aiutante mio, mi chiese supplichevole di lasciarlo procedere avanti ove più ferveva la pugna, sembrandogli ingloriosa la sua posizione presso di me.

« Dopo pochi minuti mi ripassava accanto trasportato gravemente ferito, ma radioso, brillante nel volto, d'aver potuto spargere il sangue pel suo paese. Non ricambiammo una parola, ma gli occhi nostri s'intesero nell'affetto che ci legava da tanto tempo. Io rimasi dimesso. Egli proseguiva come in trionfo ». Ferito al ginocchio, il Mameli giacque per più di un mese all'ospedale dove gli si sviluppò la cancrena. Suo vicino di letto era il suo amico e concittadino, Nino Bixio che una palla aveva trapassato. Ma il Bixio era destinato a vivere e guidare l'attacco di Roma su San Pancrazio nel 1870, al vittorioso ingresso del 20 settembre : era il Mameli che doveva morire . Al cader della notte, i Bersaglieri che avevan tenuto saldo nella Villa Valentini fin dal momento dell'occupazione, dovettero ritirarsi per mancanza di rinforzi. Così i francesi finivan la giornata in possesso della Valentini e della Corsini stessa, mentre gli uomini di Garibaldi si mantenevano nella Casa Giacometti e nel Vascello. Le tenebre s'infittivano, ma un mantello bianco svolazzava ancora come enorme farfalla sulla strada, fra gli ultimi bagliori della battaglia morente.

Così finiva la giornata del 3 giugno che segnò il fato di Roma. Nello stesso giorno, quattro miglia più al nord, un'operazione meno importante aveva avuto luogo lungo il Tevere, su cui i francesi eransi assicurato il passaggio impadronendosi del Ponte Molle sotto gli occhi dei Reduci e della Legione Romana. Ma dei 20,000 uomini dell'Oudinot, il numero di gran lunga maggiore — sette reggimenti su nove — era stato concentrato nei giardini Pamfili o intorno ad essi, pronti ad alimentare la battaglia della Villa Corsini. E' dubbio che Garibaldi avesse più di 6,000 uomini in tutto al suo comando , e questi non erano mai venuti in massa ma in reggimenti staccati, uno dopo l'altro, nel corso della giornata : la Legione Italiana era peggio che decimata prima dell'arrivo dei Bersaglieri, e così questi, prima che il Reggimento Unione arrivasse sulla scena. Tenendo presente l'enorme numero delle forze regolari francesi afforzate nella tenuta Pamfili-Corsini sotto la protezione di alti muri sui due fianchi, i lamenti di certi critici contro Garibaldi perché non attaccò la posizione francese di fianco, sembrano di una validità alquanto dubbia. Infatti il Dandolo ha potuto accusarlo dell'errore opposto, cioè di aver fatto sperpero delle sue magre forze con movimenti sul fianco sinistro « e inutili scaramuccie nelle vigne » ; accusa che è altrettanto lontana dal coglier nel segno se si riferisce alle operazioni risultanti nell'occupazione della Casa Giacometti, occupazione essenziale a mantener l'altra del Vascello non solo, ma anche a preparare e rinforzare qualsiasi attacco sulla Corsini. Un attacco frontale e senza preparazione che eseguito dai Bersaglieri in massa avrebbe, secondo il Dandolo, assicurato il successo, era stato veramente tentato con la carica di un terzo del reggimento, e data la ristrettezza dello spazio, anche l'intero corpo non avrebbe probabilmente ottenuto risultato migliore. Quelli che si dolgono perchè Garibaldi non si « trincerò » nella posizione non appena assicuratala, dimenticano che quel giorno, sul poggiolo Corsini, gli italiani non ebbero un momento di sosta, e né tempo ne materiale per procedere agli scavi; i trinceramenti li avrebbe dovuti preparare il Roselli nella pace del mese di maggio.

Ma anche rimosse tutte le censure ingiuste, gli errori di Garibaldi rimangono pur sempre gravi. Sappiamo che per lo meno una volta ha gettato contro la Villa senza spalleggiarlo, un manipolo di venti uomini ; e lo si accusa in termini generali di aver commesso a più riprese la stessa follia . Tuttavia, è evidente che gli attacchi principali eran affidati a grandi masse e che a criticar giustamente il primo attacco dei Bersaglieri dovrebbe dirsi, non che il numero degli assalitori era troppo sottile, ma che la via non era stata loro appianata da un fuoco sostenuto di cannoni e di moschetti, come quello che più tardi sgombrò i francesi dalla villa. Allo stesso modo, i lancieri del Masina — di cui si dice che Garibaldi mettesse a repentaglio la vita in pazze imprese, — investirono la villa con un attacco calcolato ammirabilmente in tempo a sorprendere i francesi indeboliti, e la tennero fino all'arrivo della fanteria che non tardò molto. Sfortunatamente però a quell'ora, verso la fine della giornata, non il coraggio ma la disciplina dei reggimenti scompigliati cominciava a venir meno, e il poggio non poté esser tenuto da un'accozzaglia intrepida contro un ben ordinato attacco di forze superiori. Non si può negare che sistema e tattica facessero difetto a Garibaldi nel suo metodo e d'attacco e di sostegno delle posizioni, ma è dubbio che le forze di cui egli disponeva avrebbero mai potuto sotto un altro Generale qualsiasi, non solo occupare come fecero più volte, ma mantenere l'angusta linea del poggio Corsini contro il fuoco concentrato e il cozzo dell'esercito francese spiegato in ordine di battaglia negli ampi giardini Pamfìli.

Tutte e due le parti pugnarono con coraggio eroico e ciascuna riconobbe i meriti dell'altra, ma non per questo si amarono di più ; il tranello per cui il generale francese aveva conquistata la posizione, rimase scolpito nella memoria degli italiani. « I feriti all'ospedale — scrisse Margaret Fuller — sono in preda a fiera indignazione. Dicono che i soldati francesi sono falsi come il loro Generale perché si son battuti furiosamente ; e fremono al ricordo della loro visita e dei loro discorsi di fratellanza durante l'armistizio » . La collera degli italiani infatti sorpassava in violenza quella del 30 aprile: alcuni prigionieri francesi furon massacrati sul campo di battaglia non appena arresisi, altri furono insultati durante il tragitto in città .

I morti e i feriti italiani furono computati talvolta a 1000, talvolta a 900, talvolta a 500 uomini e 50 ufficiali; tutti caddero in uno spazio di circa 600 passi di lunghezza su 300 di larghezza, fuori la Porta San Pancrazio. La perdita dei francesi fu ufficialmente fissata a 250 soldati e 14 ufficiali, secondo il computo più basso.

Fra i morti e i feriti, una trentina d'ufficiali e 200 semplici appartenevano alla Legione. L'Hoffstetter che era attaccato al corpo dei Bersaglieri del Manara e fu lo storico delle loro prodezze in quella giornata, ammette che i primi onori spettavano alla Legione. Nessuno contendeva ai Bersaglieri il secondo posto ; il Manara bensì avrebbe voluto rivendicar loro il primo dichiarando che anch'essi avevan perduti 200 uomini .

Una volta valutata alla lor stregua la natura e l'estensione degli errori di Garibaldi nel comando del 3 giugno, errori così spesso magnificati ed altrettanto spesso ingiustamente attenuati, non è lecito mendicar scuse come quella della sua cattiva salute o delle qualità del suo genio fatto per la guerra in campo aperto. Agli occhi di Roma e dei superstiti dei reggimenti da lui condotti alia strage, egli non aveva bisogno di scuse. Il Manara di solito molto reciso nei suoi giudizi sugli uomini e sugli eventi, descrive la battaglia in una lettera privata senza una sola parola contro Garibaldi, e invece di chiamarlo « diavolo e pantera » , come aveva fatto un mese avanti quando ancor non lo conosceva, dice appena : « il povero Generale ha perduti i suoi migliori ufficiali ». Non uno ignorava ch'egli aveva comandato male, non però alcuno lo amava meno, o era meno bramoso di battersi e morire sotto i suoi ordini. Per tutto il mese dell'assedio, la sua popolarità fu più grande che mai, né se ne deve cercar la ragione molto lontano. Egli aveva dato ai suoi compatriotti ciò cui in quell'ora, per istinto nazionale, essi agognavano più che non agognassero alla vittoria, aveva dato loro l'onore. Non di tattiche ma di eroismo era assetata l'Italia in quell'anno di disperazione coronata e glorificata dalla fede.

Se una decade dopo egli avesse perduto le battaglie di Sicilia, se non avesse potuto tener saldo sugli scaglioni di Calatafimi, se avesse dovuto ritirarsi dalle strade di Palermo, sarebbe stato un disastro irreparabile, una perdita impareggiabile. Ma nel 1849, il presente non era che il semenzaio del futuro. L'eroismo ch'egli aveva saputo infondere nei difensori della Repubblica, giungendo al suo apogeo in quel giorno di sacrificio, aveva circonfuso Roma di splendore come capitale dell'Italia a venire ; aveva reso il potere temporale del Papa impossibile d'allora in poi come parte integrale della vita italiana, possibile soltanto come stato d'interregno salvaguardato da baionette straniere.

Giacché — e noi nella nostra analisi moderna della storia di tali periodi lo dimentichiamo troppo spesso — in tempi in cui si vanno evolvendo nuove nazioni e nuovi principi di governo, gli uomini sono scossi da appelli fatti alla loro imaginazione, r arte di governo può guidarci, ma la forza che ci sospinge e e'incalza è l'imaginazione. In tempi simili gli uomini di Stato che hanno l'acume del Cavour, costruiscono i loro piani diplomatici più sottili, sulla solida base dell'idealismo nazionale in risveglio e nudrentesi di nobili memorie, di nobili aspirazioni. Ma perchè si possa aspirare a qualche cosa, bisogna pure aver qualcosa da rievocare. Così, il sacrifìcio del 3 giugno e di tutto il mese dopo a cui si votarono tante vite fra le migliori che l'Italia potesse dare, ebbe un grande significato politico perché ne aveva uno spirituale altrettanto grande. Il fiore della gioventù italiana aveva riconosciuto l'eterna legge del sacrifìcio che Mazzini per il primo aveva loro insegnato come applicare alla loro propria vita politica. « Se il granel del frumento caduto in terra, non muore, rimane solo ; ma se muore, produce molto frutto ». Si trattava di riconquistare Roma, non solo agli artigli dell'Oudmot ma alla morsa tenace delle grandi tradizioni cattoliche, tanto tenaci che per esse un opportunista della fatta di Luigi Napoleone, aveva creduto valesse la pena di spedire i suoi buoni paesani e operai francesi camuffati in brache rosse e casacche blu, a a brandir fucili e baionette contro i loro fratelli italiani. Li avevan imbarcati in nome d'un'idea. Era l'idea cattolica, il mondo cattolico, che stendeva la mano sul trono del Papa a proteggerlo. E gl'italiani dovevano o opporre una forza morale allo zelo religioso che avevan sfidato, o acconciarsi a esser battuti alla fine.

Reclamando Roma come loro patrimonio avevano oltraggiato irlandesi, spagnoli, austriaci, la metà dei francesi e molti connazionali loro propri ; in tutte le parti del mondo vaste agenzie spirituali si davano moto per tener l'Italia fuori di Roma. San Pietro e San Paolo, Sant'Agostino e il Loyola sorgevano dalle loro tombe per far fronte al Mazzini, il pallido e fragile genovese dal viso solcato dai dolori del suo paese ; e quel drappello di spettri poteva chiamare a raccolta degli eserciti armati a difesa del Papa, fin dagli estremi confini dell'Europa. Nient'altro che una tradizione più pulsante di vita, un altro ciclo di racconti cavallereschi, un nuovo ruolo di martiri, avrebbe potuto trionfarne : così il ruolo cominciato nelle prigioni papali fu completato sul Gianicolo, e i migliori andarono lieti al sacrificio. Certo, non mancò fra i patriotti chi si dolse che la difesa fosse mal avvenuta perchè fece tanto scempio dei tesori d'Italia ; pure quei tesori erano stati proficuamente spesi. Soltanto perchè vi furono uomini che ricordavano e raccontavano con angosciosa fierezza la storia della generosa dedizione di quelle giovani vite, potè con il volger degli anni radicarsi nella nazione tutta, la determinazione incrollabile di conquistarne la vera capitale, potè scaturirne quel magico e indomito grido del cuore ; o Roma o morie ! - magico financo negli anni di discordia e di divisione, tanto che presto o tardi il mondo cattolico dovette piegarsi ad esso come a volontà più possente, anzi più tenace che la propria.

Ma vi era anche bisogno di un eroe, d'un nuovo tipo di guerriero rivale di Carlomagno e dei crociati, che sapesse conquistarsi il cuore dell'Europa accendendone l'imaginazione. E anch'egli aveva già cominciato a rifulgere e doveva fra non molto offuscare oltre il giusto, la fama del genovese che era stato il vero iniziatore del movimento. Allora si era già accaparrata la devozione dell'Italia e concorreva a unirne i figli divisi in un comune sentimento di orgoglio per lui. Non doveva andare a lungo e egli avrebbe abbagliata l'imaginazione dell'Europa, anche dei suoi stessi nemici, compiendo la sua maggior conquista sul cuore della razza meno impressionabile ma non meno poetica di tutte, sui nordici signori dell'Oceano.

La gloria maggiore del 3 giugno però non si pertiene a a lui, bensì ai caduti, seme che infiltratosi nel suolo vi si andava disfacendo, e doveva portare il suo frutto a suo tempo.

GEORGE MACAULAY TREVELYAN ARIBALDI E LA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA - TRADUZIONE DI EMMA BICE DOBELLI - BOLOGNA - NICOLA ZANICHELLI - MCMIX