L'attacco dei francesi a Porta San Pancrazio
Il Triunvirato illuso che le trattative con Lesseps sarebbero approdate ad una felice conclusione, ordinò che si
allestisse in Roma una spedizione per le Marche. Garibaldi fu richiamato, ed egli, saputo il motivo del
richiamo ubbidì con gioia, e il 28 di maggio ripassato il confine, con marcie forzate, la mattina del 1º giugno
rientrò in Roma.
Sventuratamente, ma come del resto era da prevedersi, il giorno stesso della rientrata in Roma di Garibaldi le
trattative con Lesseps erano fallite e rotte.
Il 1º di giugno l'Oudinot alla lettera ingenua del generale Roselli, con la quale chiedevagli una proroga
dell'armistizio per dare modo allo esercito della Repubblica romana di battere l'esercito austriaco, rispondeva
«che gli ordini del suo governo gli prescrivevano di entrare in Roma al più presto; di avere già denunziato
l'armistizio alle autorità Romane; solo per riguardo ai sudditi francesi residenti in Roma consentiva a differire
l'attacco fino a lunedì mattina». In tutte le lingue del mondo ciò voleva dire che egli non avrebbe attaccato
che il mattino del giorno 4.
Con una slealtà senza nome, con una perfidia inaudita negli annali militari, della quale la coscienza della
Storia ha gridato vendetta, all'alba del 3 giugno i francesi, col silenzio del tradimento, sorpreso quasi nel
sonno il sottile battaglione Melara, s'impadronivano di Villa Panfili, e in men che si dica, avviluppati da ogni
parte i pochi bravi che la occupavano, si rendevano padroni del Convento di San Pancrazio, di Villa Corsini,
detto Casino de' Quattro-Venti, formanti con Villa Panfili quell'altipiano che era la chiave della difesa di
Roma.
Era da prevedersi che i francesi cui necessitava assicurarsi le retrovie per Civitavecchia, avrebbero fatto tutti
gli sforzi per impossessarsi del punto più elevato della linea di difesa e vi misero tanta e tale importanza che
per venirne al possesso adoperarono perfino il tradimento. Come il generale in capo non se ne sia preoccupato
non si spiega. Era principalissimo suo dovere di provvedere durante l'armistizio alla fortificazione in modo
efficace delle alture, nonché delle ville e dei casini fuori porta San Pancrazio per servirsene come posti
avanzati--invece non pensò a nulla, e le conseguenze furono gravissime. E la imprevidenza non si arrestò a
questo; il 1º di giugno il generale Oudinot, come abbiamo visto, dichiarava la cessazione dell'armistizio dando
l'annunzio che avrebbe aperte le ostilità il giorno 4; le necessità del momento obbligavano se non altro il
generale in capo a guarnire di forze sufficienti a respingere il nemico e non permettergli d'impossessarsi di
posizioni tanto importanti, quali erano quelle avanzate di porta S. Pancrazio e ciò senza attendere l'ultima ora!
Neppure a questo fu provveduto e fu errore fatale.
Avvenuta l'occupazione, per sorpresa e per tradimento, la villa Corsini (detta dei Quattro Venti) fu oggetto di aspra contesa. Ritolta dai bersaglieri di Pietramellara ai francesi, fu nuovamente perduta, ripresa dal
reggimento Pasi fu difesa coraggiosamente per più ore ma riperduta; con combattimento accanitissimo
sostenuto dalle truppe del generale Bartolomeo Galletti fu anche da queste perduta.
Il furioso accanimento per conservarne il possesso dimostra quanto grande importanza si dava dalle due parti
a quella dominante posizione; e tanto più non si arriva a capire perché né il Triumvirato, né il generale in capo
dell'esercito l'abbiano trascurata! Ed ora Roma ne pagava il fio.
Garibaldi sempre così vigile, mai pensando che da parte dei Francesi si potesse temere un tradimento, dormiva
nel suo modesto letto in Via delle Carrozze n. 59 quando il fragore del cannone che, aveva scossa tutta la città,
lo destò. In un baleno fu in sella; si trasse dietro la Legione Italiana, acquartierata nel vicino convento di S.
Silvestro; lasciò l'ordine che le rimanenti truppe lo seguissero; partì al galoppo. Arrivato alla Porta di San
Pancrazio, misurò con un'occhiata tutta l'estensione del pericolo; distribuì le truppe man mano che arrivavano
tra i bastioni, la Porta e il Vascello, e lanciò i Legionari alla conquista di Villa Corsini.
La Legione, comandata dal Sacchi, preceduta dal Masina accompagnata dal Bixio, non indugiò, traversò sotto
una grandinata di palle, il terreno scoperto, seminandolo dei suoi migliori, e arrivò fin sotto la Villa; ma colà,
fulminati di fronte e dai lati, dalle finestre, dalle siepi, dalle muraglie da migliaia di nemici appostati al
coperto, furono costretti a desistere e ordinatamente a ritirarsi al Vascello, che da quel momento divenne
l'antemurale estremo e più tenace dei difensori di Roma.
L'attacco replicato del Casino dei Quattro Venti, fu micidiale per i nostri; feriti a morte il bravo Masina, Pier
Antonio Zamboni portabandiera dei lancieri e Pietro Scalcerle aiutante dei lancieri stessi. Esposti a grave
pericolo e feriti il generale Bartolomeo Galletti; Nino Bixio, che, uccisogli sotto il cavallo, si spinse fino a
salire su un balcone del primo piano rimanendo gravemente ferito.
Ebbero pure ferite mortali Francesco Daverio, Capo dello Stato Maggiore della Legione, il Colonnello Pulini primo aiutante di Campo di Garibaldi e tanti e tanti altri.
E al Vascello le parti erano cambiate. Gli assalitori di prima diventarono gli assaliti; i francesi sboccavano da
ogni parte; ma i legionari protetti dal massiccio edificio, convertito in fortezza, folgoravano da cento feritoie
la morte. Il Vascello, avvolto da una bufera di fuoco resisteva impavidamente. Di questo baluardo della
repubblica romana ne aveva preso il comando Giacomo Medici; si era certi che sarebbe stato difeso fino agli
estremi.
Nelle ore pomeridiane i tentativi di riprendere le posizioni perdute, furono dai garibaldini rinnovati con grande
energia ed insuperabile eroismo; nonostante le perdite gravissime, i Legionari, i bersaglieri del Pietromellara e
quelli del Manara si slanciarono ad un nuovo attacco anche contro il Casino dei Quattro Venti: i due aiutanti
di Garibaldi, Goffredo Mameli e Augusto Vecchi erano alla testa dell'ardita falange, il primo, Goffredo
Mameli, caro sopra tutti a Garibaldi, ne riportò una ferita mortale.
La grande superiorità delle forze francesi, che coi rinforzi ricevuti superavano i quarantamila uomini sì da
permettere loro di subito rioccupare con truppe nuove le posizioni perdute, resero vani tutti gli sforzi, anche
quello tentato verso sera dai bersaglieri, sostenuto dal reggimento Unione (9º di linea).
Così finì la giornata del 3 giugno, nefasta alla fama francese, giornata veramente memorabile nei fasti del
valore italiano se si pensi che cinque grandi assalti furono dati dai soldati della repubblica Romana per
sloggiare il nemico dalle posizioni occupate per tradimento; più di dieci furono le cariche alla bajonetta con
cui precipitarono contro il nemico, e per quattro volte seppero riprendere alle migliori truppe del mondo le
posizioni perdute.
Chi può dire, degli eroici episodi di questa immortale giornata? Come ricordare alla patria i nomi dei caduti
per essa?
Il Masina, ferito al primo assalto, fasciata in fretta la piaga si slanciava a cavallo su pei gradini di Villa
Corsini, e avvolto dai nemici roteando il ferro terribile, squarciato il petto da una palla cadeva fulminato.
Il Mangiagalli, a Villa Valentini menò strage di Francesi; spezzata la spada, combattè sempre, benchè ferito e
tenne la villa con pochissimi rimastigli fino a sera.
Lo Scarcele colpito a morte legò tutto il suo alla patria.
Il Manfrin sergente dei bersaglieri, quantunque
gravemente ferito, volle riprendere il suo posto nelle file; e al Manara che gli diceva «vattene, qui non servi a
nulla!» rispondeva «lasciatemi stare colonnello, almeno faccio numero» e alla prima scarica il valoroso era
colpito mortalmente.
Il Rozà, ferito due volte, ritornava alla pugna, e alla terza soccombeva.
Angelo Bassini, s'avventava con un pugno de' suoi, contro Villa Corsini e ne tornava pesto e insanguinato.
Dalla Longa, milanese, raccolto sulle spalle il caporale Fiorani mortogli al fianco mentre ritraevasi col caro
peso, una palla lo trapassò e cadde in un fascio col suo carico.
Emilio Dandolo, errava per tutto il campo in
cerca delle spoglie dell'amato fratello e fu ferito mortalmente.
Narciso Bronzetti pure ferito andava in ore
notturne tra le scolte francesi per togliere ai nemici il corpo del suo servo fedele.
I legionari del Medici, affrontarono la grandine dei Vincennes per sottrarre da una casa incendiata dal fuoco
nemico i cadaveri dei loro compagni ivi caduti quando essi la difendevano, d'onde il nome di Casa Bruciata.
Eroismi immortali!
In tutti i corpi Romani che presero parte ai combattimenti del 3 giugno grande fu il numero degli ufficiali che
morirono o rimasero feriti, perchè negli attacchi alla bajonetta primi col loro esempio incitavano i giovani
soldati della Repubblica al sacrifizio della propria persona. Ma nessun corpo, in proporzione del numero, ebbe
perdite così rilevanti di Ufficiali come la Legione Italiana e lo Stato Maggiore di Garibaldi; Garibaldi stesso
calcolava a ventitrè ufficiali della sola legione messi fuori combattimento; otto gli ufficiali dello stato
maggiore di Garibaldi; cinquecento e più dei nostri soldati tra feriti e morti; circa sessanta ufficiali tra morti e
feriti.
È doloroso che ancora non si conoscano tutti i nomi dei caduti in difesa di Roma nel 1849; quelli che si
conoscono e sono raccomandati alla storia eccoli:
Oltre ai già nominati:
morirono
il Colonnello Pulini,
d'Ancona, dello stato Maggiore di Garibaldi,
l'aiutante Maggiore Feralta,
il Capitano Ramorino,
Emanuele
Cavallaro,
Canepa,
Sivori,
Pedevilla,
Anceo,
Caroni,
Minuto,
Gnecco,
Pegorini,
Gruppi,
Costa,
Rodi,
Coglioli,
de Maestri,
Cavalleri,
Bonnet,
Grossi,
Savoia,
Bonduri,
Meloni,
Conti,
Loreta,
Gazzaniga,
Bucci,
Marzari,
Cavizzi,
Battelloni,
Rambaldi.
Feriti gravemente:
Nino Bixio,
Goffredo Mameli morto in seguito alla ferita,
Strambio,
Duzelisiana,
Binda,
Ricci,
Marocchetti,
Bassini,
Frattini,
Grattigna,
Sartorio,
Boldrini,
Bignami,
Mambrini,
Zanetti,
Magni,
Zanucchi,
Tassoni,
Gnoli,
Zuccalà,
Vigoni,
Sampieri,
Righi,
Tresoldi,
Silva,
Colombo,
Mancini,
Signoroni,
Scorani,
Vinaselti,
Luzzi,
Mazza,
Costaldini,
de Pasqualis,
del Pozzo,
Lucci,
Giorgieri;
e fra questi i due
valorosissimi giovanetti
Domenico Cariolato delle provincie Venete, e
Raffale Tosi di Rimini che il generale
Garibaldi ebbe carissimi per tutta la vita.
Fu pure ferito combattendo valorosamente
Baccigaluppi Paolo che fu poi fucilato sul Po assieme a
Ciceruacchio e ad altri patriotti.
Padroni di Villa Panfili e delle alture, i francesi, quasi fosse una piazza forte, intrapresero l'assedio di Roma; tracciarono parallele, piantarono batterie sotto la direzione del generale Vaillant, s'avanzarono senza posa
verso la piazza.
I nostri, condotti da un genio militare arditamente infaticabile, privo di cannoni e di ogni sorta di materiale,
contrapposero intrepidi offesa ad offesa, trincera a trincera, scavarono vie coperte, alzarono cortine,
restaurarono senza sosta le cannoniere smontate, e tentarono anche delle sortite; alla debolezza dei mezzi
supplirono con la forza dei petti, per prolungare quanto potevano l'agonia della Repubblica.
Ma ogni giorno che passava la cinta d'assedio veniva sempre più serrandosi.
Ricordi di un Garibaldino
Come, con macchia che non sarà cancellata per
volger di tempo dagli annali della Francia di quei
giorni, fossero ad un tratto annullati i patti conclusi
col Lesseps e rotto V armistizio, è noto. Accettati
dal plenipotenziario gli accordi, il Generale Oudinot,
allegando istruzioni segrete, ricusò ratificarli, e intimò
gli assalti, dichiarando, con dispaccio officiale,
al Generale Roselli, che non assalirebbe la piazza prima del Lunedi 3 giugno; poi assali, nella notte
dal sabbato alla domenica, le ville suburbane
presso porta S. Pancrazio, sprovvedute di sufficiente
presidio per V inaspettata aggressione. Rimproverato
del tradimento, Oudinot osò rispondere aver egli
promesso di non assalire la piazza; ma non avere
già inteso di comprendere in tale espressione i
i posti avanzati. Del che fu poi censurato severamente
da ufficiali stranieri ne' loro scritti, dicendo
che soltanto da soldati del papa si potevano allegare
tali sottigliezze a scusa della fede tradita e
della parola d' onore violata.
Non è mio assunto, né i limiti di questa lettura
me lo consentirebbero, narrare i particolari dell' assedio
di Roma. Dalla giornata del 3 giugno alle
ultime prove del 29 di quel mese, le mura della
Città Eterna, dai due lati di Porta S. Pancrazio, e
le ville circostanti, furono teatro ad una serie di
pugne Omeriche, che non hanno esempio nella
storia delle guerre moderne. Pugnavasi corpo a
corpo, contendendo palmo a palmo il terreno;
« riconquistando posizioni per un istante perdute,
respingendo, sovente in 20 contro 100, le più valorose
milizie d'Europa, salutando la morte con un
sorriso. » I bollettini del Comando Generale
dell'esercito sui fatti d'arme di que' giorni, incordi
di Dandolo e d' altri sui casi di valore individuale,
che illustrarono quelle eroiche lotte, sono
poemi. L'Arte e la Storia, insieme congiunte, li
raccoglieranno un giorno a documento di religione
di Patria e d'Italiana virtù, quando l'Italia avrà
coscienza vera d'Arte e di Storia, degne di una
Patria libera e grande.
Il disegno — concepito da Pisacane e da Mazzini,
quando i Francesi stavano per aprir la breccia —
di convertire l'assedio in battaglia, uscendo nottetempo,
con tutte le forze, a prendere a rovescio!
il campo francese, lasciando la Città, come ne' di
di Velletri, in guardia della milizia cittadina e del
Popolo alle barricate, poteva, quantunque audacissimo,
riuscire ad esito avventuroso, e influire, con
imprevidibili efletti, sulla fortuna di Roma. « La
disfatta, » dice Mazzini, « avrebbe senz'altro accelerato
il cadere di Roma; ma una decisiva vittoria
ci avrebbe ridato due mesi forse di vita; e ad ogni
modo il fatto splendido por sé, in chi era ridotto
agli estremi, avrebbe coronato Roma di nuovo
lustro. » Delle cagioni, che impedirono l'operazione
in sul nascere, parla Pisacane nella Relazione
poc'anzi citata, né qui giova ripeterle.
Roma era condannata a cadere, ma la caduta fu
degna delFantico nome. Le ultime, disperate prove,
dopo che i Francesi avevano occupato la breccia;
la stupenda difesa del Vascello, continuata, con indomita
costanza, dai Legionari di Giacomo Medici,
sotto i colpi delle batterie nemiche, fra le procombenti
rovine di queir edifìcio, quando già tutto era
perduto; la singolare capacità spiegata dai nostri
ufficiali del genio e dai nostri artiglieri; il coraggio,
la fermezza, l'amor patrio, di cui diedero
prova, in mezzo agli stenti e ai pericoli di città
assediata e bombardata, i popolani, le donne, i
fanciulli di Roma; la pietà delle signore che assistevano
i feriti; la buona volontà e la serena costanza
dell' universale; il dignitoso contegno in
fine e la fede dell'Assemblea, intesa a dar leggi
e costituzione allo Stato, come se questo avesse
sicure dinanzi a sé le sorti dell'avvenire; formano
un insieme di nobili memorie, dinanzi alle quali
non è permesso di dubitare, per miserie presenti,
della natia virtù della Nazione Italiana e della
grandezza de' suoi destini.
Perirono, in que' giorni, di bella morte, fra i
più noti, Dandolo, fratello dell' autore de' Ricordi Morosini, Masina, Daverio, Pollini, Ramonino, Peraita,
Bonnet, Cavalieri, Cazzaniga, ed altri ed altri molti,
generosi e fortissimi; i cui nomi, sacri alla Patria,
splenderanno per sempre ne' fasti delle sue glorie
più pure. Manara cadde trafitto di palla francese
nel petto, il 29 giugno; Melara e Goffredo
Mameli, feriti il 3 giugno, morivano caduta Roma:,
quest'ultimo, poeta e martire, cantando nel delirio
d'Arte e di Patria. « L'otto luglio » - dice Agostino
Bertani che lo assisteva nell'Ospedale de' Pellegrini
- « fu sorpreso dal delirio, durante il quale canticchiava
a bassa voce e ricordava quasi giorno per
giorno la sua vita intellettuale, ahimè! troppo breve.
Negl' intervalli del canto, profetizzava e faceva voti
per l'Italia. »
Aurelio Saffi - Mazzini e Roma nel 1849 - Rimini febbraio 1882