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8 - La Repubblica Romana del 1849

28 aprile 1849

RAFFET Denis Auguste Marie: I Francesi mossero da Civitavecchia a Roma la mattina del 28 aprile

RAFFET Denis Auguste Marie: I Francesi mossero da Civitavecchia a Roma la mattina del 28 aprile: erano 6000 e più provveduti di tutto...

La situazione politico-militare che portò alla battaglia del 30 aprile 1849

... la sovranità temporale del Papa stava legata indissolubilmente con lo splendore della religione del pari che con la libertà, e la indipendenza d'Italia! I clericali allora parteggiarono per Thiers, così Napoleone prese e fu preso, e questa è la ragione per la quale il Bonaparte dopo avere impugnato le armi per atterrare la potenza spirituale del Papa adesso le impugnerebbe per sostenerla.

Queste le cause della spedizione di Roma: se non si palesarono subito, e all'opposto si avvolsero in ambagi ciò fu perchè i Francesi costumano aggiungere la coda di lione dove la pelle di volpe non arriva: veramente, io non lo nego, i nostri Italiani negoziando con esso loro mostrarono avere mandato il cervello al presto: per questi ormai sta allestito l'alloggio al Limbo; in qual parte sarà apprestato quello dei Francesi? Ma ciò riguarda l'altro mondo; in questo i Francesi devono confessarsi in colpa, perchè non possono, com'essi fanno, pretendere a due reputazioni affatto contrarie di fraudolenti e d'ingenui, di mascagni e di generosi; o tutti a Dio, o tutti a Mammone; non puossi servire due padroni a un punto.

Alla obbliqua impresa andava preposto obbliquo Capitano, ch'è chiaro come persona retta leggendo le istruzioni commesse dal Barrot all'Oudinot avrebbe notato: «io non ci vedo lume» perchè a cotesti arzigogoli il Barrot deve avere fatto tale chiosa a voce da chiarirne la ribalderia meglio, che luce polare. Naturalmente cosiffatti comandi si danno a cui sappiamo idoneo ad eseguirli, nè osservammo i soldati in simili faccende stare troppo sul taglio, meno degli altri poi Oudinot servo nato da servo; giovanetto fu tolto per paggio da Napoleone III. e con lui stette lungamente in abito servile: suo precipuo fregio l'essersi Napoleone I. appoggiato sul braccio di lui la notte precedente alla battaglia di Vagria mentre assisteva al passo del Danubio; caduto il Bonaparte servì i Borboni della stirpe primogenita, poi Luigi Filippo, per ultimo la repubblica; paiono queste mutazioni, e non sono nella vita del servo, imperciocchè per cambiare di signoria egli stia fermo nella servitù; che se l'Oudinot tirò salario dalla repubblica servendo anco lei ciò fece per distruggere un'altra repubblica, e così adoperarsi in tale atto esiziale tanto all'ucciso quanto a cui gli dava mandato a uccidere: due repubbliche ad un tratto ammazzava; un giorno gli saltò in testa di provare le parti di padrone, ma non essendo cotesto il suo mestiere egli non gli riuscì; lo stritolò Napoleone III. nato a dominare forse iniquo, non a servire. L'Oudinot a nome suo non crebbe lustro in niente, bensì menomò.

Difficile così indicare per lo appunto il numero dei morti e dei feriti in battaglia come dire preciso quello dei combattenti: ordinariamente si esagera nel più o nel meno secondo le passioni e gl'interessi dogli uomini; affermano da Marsiglia e da Tolone non essere venuti da prima oltre gli ottomila soldati, forse erano più contando i soldati di marina, gli artiglieri, gli operai, insomma tutta l'altra gente di corredo ad esercito formato; stando al Giornale delle operazioni di artiglieria pubblicato per ordine del governo in Francia portavano seco due batterie complete da 8; ed un'altra da assedio di sei cannoni da 16; imbarcaronsi sopra sette fregate, due corvette a vapore, due piroscafi minori, e due gabarre.—Taluni scrittori francesi raccontano esultante il cuore dei soldati e tranquillo quanto il mare, e il cielo splendidissimi in cotesto giorno, e può darsi, dacchè messaggieri spediti a speculare lo stato delle cose, e le relazioni officiali accertassero i Francesi aspettati a gloria a Roma. Bene è vero, che il governo romano e il Consiglio dei Deputati fino da quando il Cavaignac disegnava mandare gente in Italia per tutela della persona del Papa misero fuori la protesta di volere con lor forza impedire la violazione del territorio nazionale pigliando la difesa dell'onore degli universi popoli italiani, ma non le davano retta: chi avrebbe osato sostenere pure il lampo delle armi francesi, vittoriose sempre anco quando disfatte? Il ministero romano deliberato respingere la forza con la forza preponeva al comando nuovi ufficiali per munire e difendere il porto da qualunque assalto; preside della provincia elesse un Michele Manucci, comandante della fortezza un Bersanti consigliere accesissimo delle estreme difese; però non bastava ordinare, bensì adoperare ogni possibile conato per respingerli, e se era concesso, tuffarli nel mare; imperciocchè co' Francesi bene si duri amici, e legati, ma ad un patto, che di ora in ora tu apparecchi loro qualche nespola delle grosse; e' se ne servono a guisa di occhiali per vedere quello, che prima era loro oscuro; nè parevano le difese disperate, dacchè Civitavecchia annoverasse 121 cannoni, di cui almeno cento in buono stato, non difettassero munizioni, ed il presidio contando i lombardi di Mellara giungesse a 1700 soldati; ma il Giornale allegato ci ragguaglia come i parapetti laterizi fossero bassi, i baluardi di terra sfiancati, i ponti levatoi in ruina, insomma tutto apparisse ridotto a tale da torre ogni speranza di possibile resistenza; questo però conobbero dopo, intanto per pigliare lingua, e vedere un po' se la lancia di Giuda provasse i Francesi radunato il consiglio di guerra sul Labrador statuirono si mandasse innanzi il Panama co' soldati Espivent, e Durand de Villers, e il segretario di ambasciata la Tour d'Auvergne; i quali ammessi al cospetto del Preside, e dei Comandanti della fortezza e della marina partecipavano certo dispaccio che in breve chiariva volere i Francesi entrare in città, ed essere venuti a mettere fine alle miserie romane, e agevolare uno assetto di governo lontano così dagli abusi antichi, come dall'anarchia presente.

Parendo com'era sfrontata improntitudine cotesta l'Espivent con molte parole dette, e talune scritte s'industriava temperarle: non essere venuti i Francesi a contradiare il voto della maggioranza dei Romani, molto meno a imporre forma di governo detestata da loro, solo volere conservare il proprio credito in Italia; il Governatore non sarebbe remosso, liberissimo eserciterebbe il suo ufficio, e così di seguito; e perchè delle sue promesse restasse inalterato testimonio volle si stampassero e su pei cantoni appiccassero.—Il preside Manucci intanto spediva sollecito messo a Roma per avere istruzioni, e le aveva già senza chiederne nuove; le lusinghe francesi attecchivano e sì che ci voleva poco a ravvisare nel bando Espivent ch'egli mirava al futuro non al passato: il popolo aveva a consultarsi da capo co' preti suggeritori di voti, e raccoglitori i Francesi maestri a fabbricare maggioranze: certo i Francesi non praticarono più tardi tanti arzigogoli per rimettere il Papa, e andarono per la via più corta, tuttavolta anco a quel modo la frode si vedeva formicolare dentro le parole; le quali interessando alla gente poltrona che contenessero assicurazioni, che non ci erano le vollero credere bastevoli, anzi da poterne dare indietro mezze; epperò municipio, guardia nazionale, e commercio raccoltisi insieme con la consueta sapienza deliberarono contentarsi di tanto; che i Francesi la data fede tradissero non si aveva a supporre nè manco per sogno; non doversi perdere tempo ad aspettare istruzioni da Roma per paura ai Francesi scappasse la benevolenza; e poi chi sarebbe il temerario che volesse rompere la guerra contro la Francia? Protestare pertanto contro chiunque mettesse a mal partito la città negando lo sbarco ai Francesi. Che restava a fare? Mettere tutti i protestanti in prigione, e tirarsi su le maniche per menare le mani le sono cose agevoli a dirsi, diverso è compirle; tuttavia il Preside poteva, anzi doveva, protestare e partirsi; invece egli adunava il Consiglio di guerra chiamandoci tra gli altri anco il Mellara, ed il Consiglio tra perchè conobbe le difese impossibili, e tra per la opposizione della gente poltrona, che stabiliti gli accordi, le pareva potersi tirare il berretto su gli occhi continuando a dormire ebbe a cedere, ponendo per condizione l'Oudinot ratificasse le promesse dello Espivent. Parte del Consiglio si recò dal generale sulla nave ammiraglia, il quale ripose di botto: magari! E ci agiunse non se quale vantaggino di parolette toccanti il rispetto dovuto ai governi usciti fuori dal suffragio della maggioranza del popolo; e se togli che le porte della città e dei quartieri avessero a custodire soldati francesi misti ai romani, ogni altra cosa come prima. Appena posto il piè fermo in Civitavecchia l'Oudinot si affretta a chiosare le parole a modo suo: intendiamoci bene, la Francia non manda i suoi soldati a difendere un governo che non ha mai riconosciuto; ella si mette di mezzo perchè s'instituisca un governo lontano così dai vecchi abusi distrutti dalla generosità di Pio IX, come dalla nuova anarchia; insomma in tutto e per tutto come prima, tranne i soliti paroloni che ricorrono in fondo a siffatte dicerie come i picchi sul tamburo al finire delle sinfonie. Il municipio, accorto tardi essersi rinnovato in Civitavecchia l'apologo della cagna pregna entrata in casa all'altra cagna, detta una magnifica protesta nella quale egli sbracia con la pala ai Francesi un flagello di virtù che non hanno mai avuto, si affida alle buone loro intenzioni, dimostra la infamia della opera che stanno per commettere con altre più cose da fare aggricciare le carni a cui legge, le quali avendo appunto questo effetto partorito nell'Oudinot, egli ordinava si distruggessero le copie stampate, la stamperia si chiudesse, soldati francesi la custodissero. Nè qui si arrestava costui, che considerando la guardia nazionale, e il popolo intero aderire al municipio e acclamare la repubblica mette la città in istato d'assedio, disarma il battaglione dei bersaglieri del Mellara, e lo dichiara prigioniero di guerra, ghermisce le munizioni, occupa le torri; quinci rimuove artiglierie e artiglieri, della marina dispone come di cosa sua, rimbrottato si scusa, ma continua a tenere. Nella storia dei Filibustieri occorre qualche cosa di simile, e tuttavia i Francesi si protestavano amici, anzi dell'accoglienza ricevuta in Civitavecchia si valevano per argomento capace a dimostrare le accese voglie del popolo di averli restauratori del Papa. Chi inventò la sfrontatezza a paragone di costoro si daria per vinto.

L'Assemblea romana, preside Saliceti, protesta del violato diritto delle genti mercè la invasione ostile non preceduta da dichiarazione di guerra, delibera resistere, e rovescia sul capo alla Francia il sangue, che sta per versarsi.

L'Oudinot andategli a bene le fraudolenze a Civitavecchia le riprova a Roma inviandoci col solito Espivent un Leblanc, e un Ferand i quali trovarono nei Triumviri osso duro a rodere; alla esposizione che fecero delle cause che avevano condotto i Francesi a Roma udirono rispondersi: strano consiglio il loro se per preservare i Romani da invasione austriaca li sottoponevano a invasione francese; governo libero, e di propria scelta possedere il popolo romano nè essere punto mestieri ch'essi venissero a manipolargliene un'altro: guerra col Papa non averne, a lui scappato avere sostituto i Romani la repubblica col suffragio universale, appunto come in Francia; dopo ciò insolenze dal lato dei Francesi ebbero a mettere dentro la lingua, misero fuori la spada, e lo potevano fare prima, e conclusero col domandare se intendevano o no ricevere i soldati in Roma di amore e di accordo, e i Triumviri tosto: per loro no, ma doverne consultare l'Assemblea. L'Assemblea consultata dichiarava alla unanimità doversi respingere la forza con la forza.

Intanto l'Assemblea commetteva ai signori Rusconi e Pescatini si conducessero al Capitano Oudinot, e meglio a voce gli spiegassero la protesta precedente l'ultima deliberazione, e lo fecero; di che l'Oudinot sgomento giurava tacto pectore del tutto fuori delle sue intenzioni, e delle istruzioni del Governo ristorare il Papa, desiderava il voto del popolo liberissimo si palesasse, qualunque poi il governo uscito da quello egli prometteva osservarlo; un popolo fraterno aprisse le braccia ad un fraterno popolo accorrente a salvarlo onde le bandiere unite sventolassero sul Campidoglio, come a Civitavecchia. Richiesto di dettare un bando in questo senso si obbligò farlo; gli oratori romani parvero contentarsene; e per pegno di animo riconciliato consentì di rimandare con gli oratori a Roma il capitano Fabar, che da vicino renderebbe meglio capaci municipio, ed Assemblea dell'animo del generale; e l'erano le medesime lustre; volevano entrare. L'Assemblea uditi gli oratori, ed i Triumviri Saffi e Armellini, dacchè il Mazzini avverso agli accordi si astenne dallo intervenire e questo fu atto lodato di temperanza civile, confermò il partito già preso.

Taluno censura il Triumvirato, e l'Assemblea per siffatte deliberazioni, e a torto perchè i Francesi volessero restaurare il Papa per tenerselo bene edificato in pro del propri interessi, come fu esposto nelle pagine precedenti; e parola più parola meno detta o scritta non rileva, avvenendo nei fatti politici come nei gravi i quali tendono per necessità al centro e al fine loro: se hai forza dell'altro curati punto o poco; se non l'hai i patti; le condizioni, e le promesse bene rendono più iniqua la malafede altrui, non maggiore la tua sicurezza. Una volta i Francesi entrati in Roma avrieno rinvenuto pretesti a carra per fare a loro modo, ed oltre al danno i Romani si sarebbero tirati addosso la beffe: cedere a forza soperchiante non frutta discredito, massime dopo la prova dell'arme, il popolo che si lascia abbindolare si adagia da sè nel cataletto per cantarsi l'esequie.

Il Fabar e gli altri compagni uscirono di Roma con promessa di tornarci, ma non si videro più; il manifesto dell'Oudinot comparve; conteneva le solite girandole, che poi sperimentammo di che cosa sapessero. Quello che altrove avvertito da noi qui si rinnuova; credesi agevolmente ciò che piace, e per ordinario le spie, e gli ambasciatori referiscono quanto sanno andare a genio del governo, sicchè gli ufficiali spediti a Roma per gli accordi, e gli spioni che ci stavano di fermo accertarono l'Oudinot come la comparsa di un polso di soldati francesi sotto le mura averebbe di sicuro partorito un rivolgimento in pro del Pontefice; le ammannite difese tali da non doverci pensare nè manco; però se poco trattabili prima, adesso, che si tenevano la vittoria in pugno i Francesi gonfi da insopportabile superbia di accordi non volevano sapere: sicchè vani i consigli, e le preghiere di cittadini cospicui presso all'Oudinot; delle minacce rideva, chè lui affidavano da un lato la trapotenza della Francia, e dall'altro la debolezza di Roma, e questo pur troppo era vero, nè recava infamia; ma più si adagiava nel concetto ingiurioso dello aborrimento negl'Italiani d'incontrare combattendo la morte; si fecero ad occorrergli da capi il Pescantini, e il Rusconi, e furono trattenuti per via; allora gli scrissero una lettera nella quale, tra gli altri avvertimenti, lo ammonivano, badasse bene, il suo esercito non bastare allo assalto di Roma; il capitano di Francia reputando tutte queste manifestazioni paura s'intorava a tentare la impresa. Havvi chi crede, altresì, che il duca di Harcourt giudicando Pio IX ormai deliberato a dare di frego ad ogni istituto, che sapesse di libertà, sollecitasse l'Oudinot ad impadronirsi di Roma, la quale occupata, sarebbe riuscito meno arduo venire ad accordi con lui, o per dirla più aperta, imporgli condizioni; e le sono fandonie, perchè come i Francesi onestamente si sarebbero messi innanzi a tre potenze per compire a danno della santa sede la restaurazione, ch'eglino pure si offerivano fare con patti di gran lunga più vantaggiosi? Per natura di cose i Francesi erano come mandatari delle altre, nè potevano condursi diverso dalla mente, e dalla commissione dei mandanti; e poi l'esito chiari la fallacia di simile supposto.

Il generale Oudinot si accosta a Roma sicuro di esserci accolto a braccia quadre, per la qual cosa egli od altri per lui, incontrata resistenza, si dolse come di tradimento patito: le sono improntitudini consuete, però che se nello assedio di Roma occorsero traditori questi furono francesi; e se rimase ingannato, lui indussero in errore le sue spie spedite dentro col sacro carattere di oratori, e i codardi ch'egli mandava a sobillare in danno della Patria: nè venne punto spensierato, bensì guardingo, forte di fanterie, e di artiglieri.

Fino d'allora anco a Roma si dimenavano in pro loro i così detti Moderati o Consorti; dei quali taluno pigliava il proprio interesse per pubblica utilità, ovvero non badando se i suoi concetti partecipasse o no lo universale si travagliava a tutt'uomo a metterglieli addosso come un giogo; chè così essi compresero, e comprendono la libertà, ed anco peggio. Tuttavia non ebbero campo a tradire, dacchè a fine di conto un po' di simulacro di libertà anco da loro si desiderasse, ed oggimai il Papa nell'odio concepito per gl'istituti liberali non faceva differenza da governo temperato a repubblica.

Quanto ai preti non era da reputarli schietti come quelli, che procedono sempre pieni di ambagi, e di simulazione anco fra loro; luce non ne vogliono vedere, gli occhi chiudendosi ostinati ed orecchie; e per me credo, che il Papa quando pure rimanesse solo nel Vaticano continuerebbe nondimanco a benedire come se l'urbe e l'orbe aspettassero a gloria la sua benedizione. D'altronde i fuoriusciti anco non preti sempre così, onde bene a proposio Federigo Torre con le parole del Macchiavello avverte: «debbesi considerare quanto sieno vane la fede e le promesse di quelli che si trovano privi della loro patria. Perchè quanto alla fede si ha da estimare che qualunque volta possano per altri mezzi che per li tuoi rientrare nella patria loro, lasceranno te ed accosterannosi ad altri nonostante qualunque promessa ti avessero fatta. E quanto alla vana promessa egli è tanta la voglia estrema, ch'è in loro di ritornare a casa, ch'e' credono naturalmente molte cose, che sono false, e molte ad arte ne aggiungono; talchè fra quello che credono, e quello che dicono di credere ti riempiono di speranze talmentechè fondandoti su quella, tu fai una spesa invano, o tu fai una impresa in cui tu rovini.»

E poi o che armeggiano oggi i Francesi quando cotesto loro capitano Oudinot, per via di un bando che io non riporto però che le sue non sieno mica parole del Macchiavello, chiariva la gente che il fantasma di Governo romano ricambiando con bravate le sue profferte di pace egli accettava la sfida, benchè la fosse bazzecola aspettandolo a braccia aperte popoli e soldati, fanciulli, vecchi, ed anco le donne nè altri aversi a combattere tranne un'accozzaglia di rifuggiti di ogni maniera, che Dio ne scampi e liberi? Per colpa dei repubblicani romani la libertà darebbe il tuffo, mentre i repubblicani fancesi così costumati e per bene si metterebbero in quattro perchè le istituzioni liberali ricevessero tutto lo sviluppo comportabile con gl'interessi ed i costumi del popolo romano.

Il Tevere parte Roma, non però ugualmente; alla diritta del fiume sorge da un lato il Vaticano, dall'altro il Gianicolo; qui la cinta di mura prima costruita da Leone IV, poi ampliata da Pio V, e ingagliardita in processo da Pio V, la quale comincia da castello Santo Angiolo, e girato intorno il Vaticano termina a porta Santo Spirito. Urbano VIII edificava un recinto nuovo di mura bastionate, che da porta Cavalleggieri prossima a quella di Santo Spirito va in su pel Gianicolo, arriva a porta San Pancrazio, e quinci avvalla fino alle rive del Tevere a Porta Portese. Da ora in poi Roma non ha difesa eccetto il fiume; ricompariscono mura male fabbricate, e peggio rabberciate, mezzo in rovina, le quali corrono a mezzogiorno, a levante e a tramontana cessando al foro Boario, dove da capo il solo fiume schermisce Roma per un miglio all'incirca; al termine del quale sorge castel Santo Angiolo. I Francesi mossero da occidente facendo capo alla parte più munita di Roma, non già per errore che commettessero, bensì per lasciarsi libera la via al mare pigliando per cardine di guerra, o come con termine di arte si dice, per base di operazione Civitavecchia: qui le difese non potevano essere lunghe, tuttavia di stianto non si poteva sforzare la Città; che se alle mura mancavano fossi, spaldi ed opere avanzate, nè manco ci facevano impressione le artiglierie da campagna, e dentro e fuori stavano uomini a difenderle.

Primo Garibaldi con la sua legione. Chi è Garibaldi? Dio ha scritto la sua gloria nel firmamento colle stelle, il Garibaldi la sua con le vittorie per lo universo mondo: invitto sempre, vinto una volta, perchè gli mossero nemici i fratelli, ed egli correva tra le armi da un lato e dall'altro per implorare la pace. Anima e mente di popolo; non so perchè, e per quale vincolo d'idee quando lo miro, ricordo il dipinto dell'Albano che rappresenta Amore, che tocca la lira a cavallo di un lione; lo imperversare della natura non lo spaventa più delle procelle degli uomini, egli ci sta in mezzo, come se queste e quello fossero attaccati al carro della sua fortuna. Dovunque si rammenta la Libertà il nome di Garibaldi le tiene dietro quasi eco di quella. La vittoria è l'ombra del suo corpo; dove comparisce cessano fame, stanchezza, e perfino il dolore delle ferite; a tutte queste miserie subentra per dominare onnipotente su le anime il divino entusiasmo di morire per la Patria, e per la Libertà: tutto splende alla luce dello eroe, tanto vero questo che parecchi uomini i quali apparvero fiamma accanto a lui, da lui discosti diventarono carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia. La Provvidenza nel crearlo volle segnare sopra la sua fronte destino, ma distratta a mezzo non compì la leggenda: se così non era qual mortale adesso più di lui somiglierebbe Dio? Affrancava popoli, e li donava al regno, e il donator di regni oggi gli manca il pane. È giustizia questa? È castigo? Non so, io piego il capo davanti ai decreti del supremo sapiente. Certo il plebiscito a cui lo vestì pesa peggio della camicia di Nesso, ma che importa? Ormai il primo impeto fu attutito; la fiamma accesa tornò brace, anzi cenere; gli eroi diventarono bottegai; gran mercato delle anime fu aperto; chiunque volle vendersi trovò il suo prezzo, e la mercè offerta pur troppo superò la richiesta…. e più non dico, che la parola mi scorre dalle labbra, corrodente peggio dell'acqua forte. La bandiera della Libertà rimane ferma piantata in mezzo a un mucchio di speranze deluse, il vento contrario tormentandola la fa scoppiettare, e par che dica: «quando si leveranno nuove mani per farmi progredire?» Per ora la nazione ha paura, almeno così ci danno ad intendere: pochi, e poveri ardimmo concepire il disegno della unità italiana, e tentarne il compimento; adesso con ventidue milioni di uomini ci peritiamo; avventatezze i conati primi, le moderne viltà prudenza. Avventatezze Maratona, e Platea; avventatezze le guerre elvetiche, le battaglie americane avventatezze, incliti fatti le regali dimore. Ma guerra senza danaro non si fa, e noi ci troviamo al verde, oppongono i traditori d'Italia; bene sta; ma voi ci stremaste tenendo in piedi e in procinto uno esercito, che adesso a prova conosciamo ordinato non per fare bensì per reprimere la guerra, non per combattere fuori i nemici, ma dentro i liberi cittadini; i soldati appaiono canonici, gli uomini di toga guerrieri: i generali si fanno banditori di pace, i cittadini chiedono battaglia, e impongono ai gladiatori che hanno mangiato il pane a tradimento: tiratevi da parte, combatteremo per voi…. staremo a vedere quanto la durerà: per me sento, senza tema d'ingannarmi, che la ira dei popoli e di Dio matura nel suo segreto. Torniamo a Roma.

E la legione del Garibaldi quale, e come composta? Da prima la formarono alcuni uomini, nè manco una compagnia, superstiti ai combattimenti di Moranzone e di Luino, vi si aggiunsero poi i bersaglieri mantovani i quali licenziati a Torino nell'ottobre, vennero a Pontremoli nel novembre del 1848 dove ebbero dal ministero democratico toscano armi, vesti, ed anco un po' di danaro; sul finire del mese raggiunsero il Garibaldi a Ravenna, nella quale città egli menava vita stentata; allora crebbero fino a 700; altri soldati racimolarono in più parti, massime a Ferrara, Mambrini capitano, e Ferrari tenente; difettavano di armi, di vesti, di tutto, ed in questi arnesi furono spediti a vigilare i confini verso Napoli; alla metà di aprile in Anagni ottennero armi, vesti poche, causa di contesa fra loro. Costà giunse la nuova dei Francesi sbarcati a Roma, e dicevano per combattere al fianco degl'Italiani, nè poteva correre diverso il grido, perchè una repubblica mossa ai danni di altra repubblica partorita in certo modo da lei pareva mostruoso, ma presso cotesta gente le opere quanto più assurde credibili. I legionari di Garibaldi da un lato lieti di tanto appoggio e al punto stesso zelatori della propria fama sbracciavansi a segnare un foglio, col quale chiarivano ch'essi intendevano combattere separati dagli ausiliari; non si confondano i meriti; il cimento distinto stimolo alla emulazione; quando a torli d'inganno ecco arriva un messo perchè si avaccino a Roma minacciata dai Francesi, e i legionari andarono; taluno di loro pensoso delle sorti finali della Patria, tutti anelanti conoscere chi più valente al paragone delle armi o i Tigri di America (com'essi sè medesimi chiamavano) ovvero i Lioni di Affrica, essendo stati cavati la più parte dei Francesi dall'Algeria.

Da tanto che i Francesi furono sorpresi, basti sapere che addosso ad un ufficiale nemico morto in battaglia furono trovate le istruzioni per lo assalto, giusto nel vero modo in che fu fatto: il quale era irrompere con forze bipartite contro la porta Angelica, e sopra la porta Cavalleggeri punti fra loro distanti 630 metri in linea retta dentro Roma e quinci, sperdendo ogni impedimento dinanzi, fare capo dai diversi lati nella piazza San Pietro che giace in mezzo a cotesto spazio: di fuori poi girando le mura lo intervallo fra le due porte cresce fino a 2490 metri: ma poichè sotto le mura di città difesa male camminano eserciti, per poco che ti allontani a cercare più sicuro sentiero ti toccherà discorrere fra le due porte un tratto ben lungo di 4000 metri; così i due corpi si ponevano in avventura senza che l'uno potesse per la soverchia lontananza sovvenire all'altro; mentre ai Romani sortendo da castello Santo Angiolo era fatta abilità pigliare gli assalitori di porta Angelica di fianco, ovvero alle spalle, gli altri spinti contro la porta Cavalleggeri con mosse uguali potevano essere combattuti dai nostri usciti da porta San Pancrazio.

I Francesi mossero da Civitavecchia a Roma la mattina del 28 aprile: erano 6000 e più provveduti di tutto; la sera giunsero a Palo e vi si fermarono; il 29 accamparono a Castello Guido 18 chilometri più in su verso Roma; di qui il Generale spediva innanzi a speculare il fratel suo capitano Oudinot, che ritornò referendo guasti i ponti, sfondate le strade, però difficile non impossibile procedere innanzi; avere incontrato non so quale pattuglia romana che seco lui ricambiò parole, ma sul punto di tornarsene gli aveva fatto fuoco addosso, onde due cavalli erano rimasti morti, e prigione un cacciatore impigliato nelle redini del cavallo caduto.—Così il giornale delle operazioni dell'artiglieria dettato dal Generale Vaillant; altri poi addirittura afferma, che i Romani al primo apparire dei Francesi avevano spulezzato a scavezzacollo; lasciando a chi leggeva la cura di accozzare insieme la fuga dei fanti romani con la prigionia di un cavaliere francese.

LO ASSEDIO DI ROMA
Francesco Domenico GUERRAZZI
LIVORNO - 1864