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7 - La Repubblica Romana del 1849

25-26 aprile 1849

RAFFET Denis Auguste Marie: Lo sbarco dei francesi a Civitavecchia

RAFFET Denis Auguste Marie: Lo sbarco dei francesi a Civitavecchia

Gli avvenimenti dell'aprile 1849

25 APRILE

Cosi il 25 stesso, senza niuna resistenza, incominciava ed era compiuto lo sbarco dei Francesi. I primi soldati, dalle barche in cui venivano alla spiaggia, mandavano grida patriottiche di Viva la Repubblica! Viva l'Italia ! e molto popolo circostante rispondeva sul lido: Viva la Repubblica romana! Viva la Repubblica francese! Era una guerra che incominciava colle apparenze d'una festa. Né tardarono guari ad accorgersi i cittadini come fossero stati ingannati. Fattosi appena padrone del terreno, il generale di Bonaparte dichiarava altamente che egli era spedito a restaurare l'odiato governo dei preti. Ogni segno di libertà romana per opera sua scompariva, e il tenente-colonnello Melara, fidente nella parola d'onore di un soldato , veniva co' suoi bersaglieri, uniche truppe del presidio, fatto per sorpresa prigioniero; erano disarmati gli artiglieri, e, senza lasciare ricevuta, venivano usurpati i cannoni, gli innocenti navigli e le munizioni.
Assai vituperevole fu la resa di Civitavecchia; non già perché la sua resistenza impedisse lo sbarco che avrebbe potuto effettuarsi su qualunque altro punto della costa; ma perché quella debolezza contribuì molto nei primi momenti a far supporre, a buona parte dell'esercito francese, non essere la Repubblica l'espressione del voto popolare. E in fatto i nemici d'ogni vera libertà, resi forti da un avvenimento ottenuto colle più subdole arti, ci calunniarono in ogni maniera; sia dalla tribuna, sia dai giornali, sia dai racconti, vantando l'ingresso pacifico di Civitavecchia, provavano che la popolazione desiderava i Francesi. E il ministro Druin de Lhuys, nel riferire, il giorno 8 maggio, all'assemblea francese l'arrivo della spedizione, parlava di accoglienze beneficlle, e nascondeva la dignitosa protesta che il Municipio indirizzava all'Oudinot, in cui si schermiva ogni straniero insulto, mostrava false e bugiarde le asserzioni degli amici del teocratico reggimento. Oudinot rispondeva poi alla protesta facendone sequestrare le copie, strappare le affisse e chiudere l'unica tipografia, data in custodia a guardia francese.

26 APRILE: Lo sbarco di Avezzana a Civitavecchia
Presentavasi il 26 nel porto di Civitavecchia i due vapori, il Nuovo Colombo ed il Giulio li, aventi a bordo il battaglione Bersaglieri Avezzana, il quale, un mese circa dopo la giornata di Novara, abbandonava il Piemonte per muovere colle sue genti in soccorso della minacciata Repubblica. Avezzana spediva a terra Enrico Dandolo per domandare all'Oudinot il permesso di sbarcare. Il generale francese con assai alterigia gli intimava di notificare a chi lo mandava avessero tutti immediatamente a tornare indietro. Avezzana stesso non poteva innanzi tratto ottenere l'approdo alla colonna lombarda. Oudinot chiedevagli a che venisse costì; la causa di Roma non essere quella di Lombardia; deponessero le armi, o a lui si unissero per liberare la santa sede da una masnada di barbari e di ribaldi. Avezzana accoglieva con magnanimo sdegno la rea proposta, e di riscontro domandava al Francese di qual dipartimento, di qual provincia esso fosse. Una essere la causa di Milano, di Roma, d'ogni terra italiana: una sola l'insegna sotto cui militavano. Essere venuti per combattere i nemici d'Italia, poco importargli qual linguaggio parlassero, e da quali intendimenti fossero mossi. «La naturale superbia francese giovò qui più che altro al proposito di que' prodi; imperocché Oudinot tenevasi così certo di un pronto trionfo, che, dopo breve consulta, lasciò libero lo sbarco ai Lombardi a porto d'Anzio, col patto che non pigliassero l'offensiva prima del 4 maggio. Ai quattro di maggio, egli pensava, il telegrafo avrà trasmessa a Parigi la mia vittoria colle tre parole di Cesare: veni, vidi, vici. Ma non tardò molto ad accorgersi come combattessero quegli Italiani "qui ne se battentpast", ingiuriose parole che furono respinte sin d'allora in gola a quello stesso generale Lamoriciére, che, scorsi pochi anni, fattosi soldato del Papa, doveva co' suoi mercenari ignominiosamente fuggire innanzi ad un nodo d'Italiani. I Lombardi facevano il loro ingresso in Roma la mattina del 29, ed erano accolti da quel popoli» con fraternità spontanea e sincera.

L'esercito della Repubblica si componeva appena d' un effettivo di 17 a 18 mila uomini di tutte le armi, sotto il comando del generale Roselli. Raccolto e disciplinato era stato a cura d'una commissione di guerra di cinque individui. Delle buone cose operate da quella commissione, principal parte di lode spetta al colonnello Carlo Pisacane da Napoli, capo di stato maggiore generale. Peritissimo nelle cose militari, Pisacane non poco giovò a mantenere la gloria delle armi nostre, disponendo con savio accorgimento le difese e le offese.
Di que' 17 mila uomini, ve n'erano in Roma, all'arrivo de' Francesi, ottomila soltanto: gli altri trovavansi dispersi in piccoli distaccamenti per tutto lo Stato. Quel pugno d'uomini, sin dal dì 29 si collocava ai suoi posti di combattimento, diviso in quattro brigate sotto gli ordini di Garibaldi, di Masi, di Savini e di Galletti.

FELICE VENOSTA: ROMA E I SUOI MARTIRI (1849) - 1863

GARIBALDI E LA DIFESA DI ROMA

Gli avvenimenti dell'aprile 1849

25 APRILE

Il 25 aprile, il generale Oudinot (figlio del maresciallo di Napoleone I) sbarcò a Civitavecchia, a quaranta miglia nord-ovest da Roma, con otto o diecimila uomini. Gli ordini eh'egli aveva ricevuti dal suo Governo qualificavano la Repubblica Romana come un'usurpazione impopolare facile a sopprimersi: non riconoscesse ne il Triumvirato ne l'Assemblea, ma usasse cortesia verso i membri di entrambi come individui; occupasse la capitale da amico, ma dato che gli abitanti fossero così assurdi da disapprovare l'arrivo di un esercito straniero dentro le loro mura, impiegasse tutta la forza necessaria. Le sue stesse piuttosto illogiche dichiarazioni, sebbene ingannevoli perché affermavano esser la Francia aliena dal coartare il popolo romano, non nascondevano che egli veniva a rovesciare il Governo esistente e a restaurare l'autorità papale in qualsiasi forma. … Rifugiandosi presso Ferdinando a Gaeta, Pio IX aveva inflitto ai francesi una grave sconfitta diplomatica, ma essi avrebbero bellamente riguadagnato il terreno perduto, se fossero riusciti ad aprirgli le porte di Roma mentre i suoi amici napoletani s'indugiavano ancora alla frontiera paurosi di attaccare Garibaldi. Fin dal momento della fuga del Papa, eran venuti facendo preparativi militari e navali e ai primi di dicembre avevan perfino imbarcate alcune truppe che le tempeste avevan ricacciate indietro. Dopo di ciò il Governo francese si era arenato in nuove agitazioni fino a che la notizia di Novara aveva precipitato la partenza finale della spedizione dell'Oudinot con la certezza che l'Austria sarebbe presto entrata in lizza per la stessa corsa su Roma. …. Ma non è necessario prender molto sul serio le ipocrite ragioni spacciate per gettare il fumo negli occhi ai liberali d'Italia e di Francia, sulla «liberazione» di Roma dagli «stranieri» e sulla «riconciliazione» fra il Papa e i suoi sudditi. La «riconciliazione» finì come tutti avevano previsto, nella restaurazione dell'autocrazia papale e di tutti i mali peggiori inerenti al Governo dei preti, ne avrebbe potuto finire altrimenti perché il Papa nello stesso tempo che era preparato ad accettare la sua restaurazione dalle mani della Francia, era determinato ad abolire ogni vestigio di libertà costituzionale e di governo laico, anche se la Francia avesse insistito a salvare qualche apparenza di riforma. A dispetto di quel ch'egli volesse far credere a se stesso e agli altri, con la sua attitudine verso gli Stati Papali, Luigi Napoleone stava rinnovando la politica della Santa Alleanza, con la differenza che la sua posizione era più isolata che quella di Alessandro o del Metternich, e la sua attitudine verso gli altri mantenitori dell'«ordine» , meno amichevole. Non si trattava tanto di una Santa Alleanza quanto di una Santa Gara per il primato nel controllo dell'Italia centrale. La sola vera cosa che si possa dire a scusa della spedizione di Roma è che i Ministri francesi inviando i loro soldati, erano persuasi di vederli accolti come liberatori. Ma erano arrivati a questa conclusione per un semplicissimo processo di fede nei loro desideri, e quand'anche si fossero aspettati resistenza, o non avrebbero agito diversamente, o avrebbero mandato forze maggiori. Infatti, scoperto il loro sbaglio in tutta la sua estensione, scoperta la determinazione dei cittadini della Repubblica Romana a morire per la loro indipendenza, essi non esitarono a ristabilire il più odioso Governo dell'Europa cristiana su sudditi recalcitranti, ne a sparger sangue in uno Stato su cui non avevano il menomo diritto di sovranità, i cui confini non erano limitrofi ai loro, la cui politica estera mirava a coltivare l'amicizia della Francia, i cui governanti continuarono anche dopo i primi scontri ad adoprarsi insistentemente perché si rinnovassero i rapporti di cordialità. Questa maniera d'agire ripugnerebbe altamente alla coscienza della Repubblica Francese d'oggi giorno, come ripugnava allora alla coscienza dei migliori cittadini di Francia che protestarono invano nella Assemblea e nelle strade di Parigi contro la gran trama clericale e militare ordita a sopprimere la libertà in un altro paese. L'assassinio della Repubblica Romana preannunziava il destino che spettava di lì a poco alle libere istituzioni della Francia. …. Ma in quel tempo un'altra gran parte dell'opinione pubblica in Inghilterra, era assolutamente antitaliana; la Quarterly Review fedele alle sue tradizioni antigiacobine lodava i bei tempi di Gregorio XVI, lodava Ferdinando di Napoli e paragonava il Mazzini al Robespierre. Il Times non meno convinto, stava anche lui dalla parte del Re Bomba, del Papa e degli austriaci contro i loro sudditi rispettivi : biasimava la spedizione francese soltanto in quanto limitava l'azione dell'Austria e ne intaccava i privilegi, e rinfacciava all'Oudinot le tergiversazioni adottate invece di dichiarare la sua vera mira, la restaurazione del despotismo papale. Il corrispondente del Times si teneva di qua dalle mura dentro le linee francesi, e la sua sete di sangue non poteva esser soddisfatta dalle operazioni tarde e relativamente umane dell'Oudinot. Gli scherni del gran giornale per i «degeneri residui del popolo romano» , che «si ostinano a credersi eroi» , stanno a attestare quella straordinaria boria nazionale di certi inglesi di allora nelle loro istituzioni, per cui ogni aspirazione di un'altra razza verso il progresso e la libertà, sembrava un insulto a loro stessi.

27 APRILE

La sola vera cosa che si possa dire a scusa della spedizione di Roma è che i Ministri francesi inviando i loro soldati, erano persuasi di vederli accolti come liberatori. Ma erano arrivati a questa conclusione per un semplicissimo processo di fede nei loro desideri, e quand'anche si fossero aspettati resistenza, o non avrebbero agito diversamente, o avrebbero mandato forze maggiori. Infatti, scoperto il loro sbaglio in tutta la sua estensione, scoperta la determinazione dei cittadini della Repubblica Romana a morire per la loro indipendenza, essi non esitarono a ristabilire il più odioso Governo dell'Europa cristiana su sudditi recalcitranti, ne a sparger sangue in uno Stato su cui non avevano il menomo diritto di sovranità, i cui confini non erano limitrofi ai loro, la cui politica estera mirava a coltivare l'amicizia della Francia, i cui governanti continuarono anche dopo i primi scontri ad adoprarsi insistentemente perché si rinnovassero i rapporti di cordialità. Questa maniera d'agire ripugnerebbe altamente alla coscienza della Repubblica Francese d'oggi giorno, come ripugnava allora alla coscienza dei migliori cittadini di Francia che protestarono invano nella Assemblea e nelle strade di Parigi contro la gran trama clericale e militare ordita a sopprimere la libertà in un altro paese. L'assassinio della Repubblica Romana preannunziava il destino che spettava di lì a poco alle libere istituzioni della Francia. Negli ultimi giorni d'aprile, mentre Oudinot superava le quaranta miglia che separavano il suo punto di sbarco dai sobborghi di Roma, i Triumviri guardandosi intorno potevan già vedere il loro isolamento contro tutto il mondo. Al Governo democratico in Toscana era già (11 aprile) toccato ciò che «nessuna Repubblica agognava» : il Granduca era stato richiamato al trono dalla voce del popolo, appena in tempo a prevenire una restaurazione forzata per opera degli austriaci. Il Piemonte cercava prudentemente di tenersi amica la Francia, accosciandosi per poter meglio spiccare il salto in un giorno a venire. La lunga agonia dell'assedio di Venezia si strascicava ancora, ma la fine ne appariva già certa. Tutte le altre potenze che avevano un interesse attivo in Italia erano in lega contro il Mazzini. L'Inghilterra nel suo interessamento passivo sermonizzava inascoltata a questo e a quello. Il Palmerston, se non l'intero Gabinetto, era amico accademico del Piemonte e nemico dell'Austria, ma anche lui non moveva un dito a sostegno della Repubblica Romana : senza rendersi conto dell'attitudine del Papa oramai intrattabile, egli si appagava di consigliare il Mazzini a negoziare per istituzioni liberali sotto il restaurato Dominio Papale. Ma in quel tempo un'altra gran parte dell'opinione pubblica in Inghilterra, era assolutamente antitaliana; la Quarterly Review fedele alle sue tradizioni antigiacobine lodava i bei tempi di Gregorio XVI, lodava Ferdinando di Napoli e paragonava il Mazzini al Robespierre. Il Times non meno convinto, stava anche lui dalla parte del Re Bomba, del Papa e degli austriaci contro i loro sudditi rispettivi : biasimava la spedizione francese soltanto in quanto limitava l'azione dell'Austria e ne intaccava i privilegi, e rinfacciava all'Oudinot le tergiversazioni adottate invece di dichiarare la sua vera mira, la restaurazione del despotismo papale ('). Il corrispondente del Times si teneva di qua dalle mura dentro le linee francesi, e la sua sete di sangue non poteva esser soddisfatta dalle operazioni tarde e relativamente umane dell'Oudinot. Gli scherni del gran giornale per i «degeneri residui del popolo romano» , che «si ostinano a credersi eroi» , stanno a attestare quella straordinaria boria nazionale di certi inglesi di allora nelle loro istituzioni, per cui ogni aspirazione di un'altra razza verso il progresso e la libertà, sembrava un insulto a loro stessi. La parte migliore dell'Inghilterra però, era ben rappresentata di là dalle mura, dalla parte della ragione. L'artista del giornale illustrato più importante d'allora, mandava a casa i curiosi schizzi dei Garibaldini che mi è stato gentilmente concesso di riprodurre in questo libro. Si può dire che queste illustrazioni dell'Illustrated London News e il commento incoraggiante nel testo, abbiano messe le prime radici del culto del nostro paese per Garibaldi, una pianta lenta a crescere ma che doveva raggiungere enormi proporzioni. Anche Arthur Clough era in Roma raccogliendo le impressioni raffazzonate poi nei suoi «Amours de Voyage» ; il suo tentennamento proverbiale non si estendeva alla politica italiana ; egli segui il martirio della libertà con occhio di poeta non di scettico. E Margaret Fuller di Boston, già vecchia e cara amica del Mazzini in Inghilterra, si era data tutta alla gran causa e sentiva che la nuova Roma del popolo era la terra promessa delie visioni del suo cuore. I romani dunque armandosi alla lotta non avevan dalla loro che gli Dei. Fuori della città, tutti, amici e nemici, eran sicuri ch'essi si arrenderebbero : «gli italiani non si battono» , era il detto che circolava nel campo francese, e anche quelli che avevan conosciuto i settentrionali non avevan mai sentito parlare del valore romano nella storia del mondo moderno. Ma un gran cambiamento morale si era operato. Quando il tanto sospirato Garibaldi di ritorno dalle provincie settentrionali della Repubblica entrò in Roma nel pomeriggio del 27 aprile alla testa dei suoi Legionari abbronziti dal sole, non si poté più dubitare dello spirito che animava i cittadini assiepati sul suo passaggio : «E venuto ! è venuto!» si gridava per tutta la lunghezza del Corso. Era venuto, per ora della risurrezione di Roma era suonata. «Lo scultore Gibson, allora in Roma, descrive lo spettacolo offerto dall'ingresso di quei strani guerrieri a cavallo, come uno dei più bizzarri a cui abbia mai assistito nella Città Eterna. Gli uomini, abbronziti dal sole, con i capelli lunghi e arruffati e i cappelli conici ornati di nere piume ondeggianti, con i visi allampanati, bianchi di polvere e incorniciati da barba incolta, con le gambe nude, si accalcavano intorno al loro capo che, montato su un cavallo bianco era perfettamente statuario nella sua bellezza virile ; e l'intero gruppo aveva piuttosto V aria di una compagnia alla Salvator Rosa che di una truppa militare disciplinata». La presenza del Mazzini combinata con quella di Garibaldi, aveva l'effetto di esaltare i cuori e le menti trasportandoli in regioni in cui sembrava vile calcolare se vi fosse speranza di vittoria nella guerra difensiva a cui si accingevano. E tanta sublime negligenza era una saviezza. Vi sono tempi in cui è savio morire soltanto per l'onore. Se Roma si fosse sottomessa ancora una volta al dispotismo papale senza colpo ferire, non avrebbe mai potuto mettersi a capo dell'Italia o soltanto come capo ignobile di una nobile famiglia. Gli storici che biasimano la difesa di Roma sorvolano su questo punto che è d'immensa importanza. Il risultato della guerra attuale poteva essere men che dubbio, ma il risultato per il quale s'ingaggiava la battaglia stava nel futuro lontano. Se si domanda perché si sospingevano i romani alla lotta, il Mazzini risponde: «Con quei che scrissero essere stato errore il resistere, non è da discutersi. Ma alle molte evidenti cagioni che ci comandavano di combattere, un'altra se ne aggiungeva per me intimamente connessa col fine di tutta la mia vita, la fondazione dell'unità nazionale. In Roma era il centro naturale di quell'unità; e verso quel centro bisognava attirare gli sguardi e la riverenza degli Italiani. Or gli Italiani avevano quasi perduto la religione di Roma: cominciavano a dirla tomba e parca. Sede d'una forma di credenza ornai spenta e sorretta dall'ipocrisia e dalla persecuzione, abitata da una borghesia vivente in parte sulle pompe del culto e sulle corruttele dell'alto clero, e da un popolo virile e nobilmente altero, ma forzatamente ignorante e apparentemente devoto al Papa, — Roma era guardata con avversione dagli uni, con indifferenza sprezzante dagli altri. Da pochi fatti individuali in fuori, nulla rivelava in essa quel fermento di libertà che agitava ogni tanto la Romagna e le Marche. Bisognava redimerla e ricollocarla in alto perché gli Italiani si riavvezzassero a guardare in essa siccome in tempio della patria comune : bisognava che tutti intendessero la potenza d'immortalità fremente sotto le rovine di due epoche mondiali. E io sentiva quella potenza, quel palpito della immensa eterna vita di Roma al di là della superficie artificiale che, a guisa di lenzuolo di morte, preti e cortigiani avevano steso sulla grande dormiente. Io aveva fede in essa. Ricordo che quando si trattava di decidere se dovessimo difenderci o no, i capi della guardia nazionale, convocati e interrogati da me, dichiararono, deplorando, pressoché tutte che la guardia non avrebbe in alcun caso aiutato la difesa. A me pareva d'intendere assai più di loro : e ordinai che i battaglioni sfilassero il mattino seguente davanti al palazzo dell'Assemblea e si ponesse da un oratore la proposta ai militi. Il grido universale di guerra che s'inalzò dalle loro file sommerse irrevocabilmente ogni trepida dubbiezza di capi. La difesa fu dunque decisa dall'Assemblea e dal popolo di Roma per generoso sentire e riverenza all'onore d'Italia, da me per conseguenza logica d'un disegno immedesimato da lungo con me. Strategicamente, la guerra avrebbe dovuto condursi fuori di Roma, sul fianco della linea d'operazione nemica. Ma la vittoria era, se non ci venivano aiuti d'altrove, dentro e fuori impossibile. Condannati a perire, dovevamo, pensando al futuro, proferire il nostro morituri te salutant all'Italia da Roma» (*).
(*) Mazzini, Note autobiografiche

GEORGE MACAULAY TREVELYAN
GARIBALDI E LA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA